Eisenstein in Messico, di Peter Greenaway

Peter Greenaway ripercorre simbolicamente la rocambolesca avventura messicana del cineasta russo, che in questi luoghi ha vissuto la morte del fallimento e la rinascita in una dimensione paradisiaca

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Il cinema è morto e l’unico modo per riportarlo in vita è disseppellire il corpo e l’anima dei grandi maestri e celebrare un’arte che non esiste più. Da questa premessa parte Peter Greenaway per giustificare il suo mastodontico Eisenstein In Guanajuato, che ripercorre simbolicamente la rocambolesca avventura messicana del cineasta russo, che in questi luoghi ha vissuto la morte del fallimento e la rinascita in una dimensione paradisiaca. Ėjzenštejn squarcia il suo passato in bianco e nero per fare il suo ingresso trionfale, con i capelli al vento e un’auto carica di libri di ogni tipo, in una città dai colori saturati al massimo. E già dalla prima inquadratura Greenaway colpisce nel segno, delineando un personaggio eccentrico e ingovernabile, che fa girare la testa solo a guardarlo. I suoi pensieri corrono veloci e le immagini li inseguono senza sosta, alla stessa velocità con cui il regista illuminato le crea nelle sua mente. Si sovrappongono e si affiancano sullo stesso schermo, dilatando il tempo di una narrazione in cui il presente immaginato da Greenaway completa le immagini di repertorio di Ėjzenštejn in un mosaico surreale, in cui le immagini della processione del giorno dei morti si amalgamano alla perfezione con le scene di sesso strappate all’intimità del suo letto.

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Il Messico è ipnotico, incanta Ėjzenštejn per il suo culto gioioso dei morti e per l’aria di rivoluzione che è costantemente percepibile nell’aria, ma la ricerca di immagini efficaci per il suo film Que viva México! è solo l’inizio di un viaggio esistenziale di conoscenza di questa nuova terra e del suo corpo, che lo porta a raggiungere vette mai toccate prima. Il tempio del corpo viene sconsacrato con lo stesso vigore con cui i rivoluzionari abbattono le porte dei palazzi reali e in quel momento vive la sua rivoluzione personale molti anni dopo di quella russa. L’amore lo porta in dimensioni mai toccate prima, in paesaggi distorti e luoghi onirici in cui i suoi disegni osceni si animano per diventare un inno gioiso alla sensualità. Ma la perdità della verginità fisica ed emotiva coincide anche con la perdita dell’amore, perchè il progetto cinematografico di Ėjzenštejn fallisce miseramente ed è costretto a tornare nell’Unione Sovietica.

La morte interiore dell’artista, legata al suo fallimento professionale e sentimentale, è celebrata da Greenaway con la grandiosità che si addice alla sua personalità sopra le righe, ed esplode in una straordinaria galleria di immagini reali e simboliche che innalzano questo momento di crisi al punto più alto del film. Greenaway osa quanto mai prima d’ora e punta tutto sull’esagerazione, su una spettacolarizzazione del dolore che lascia senza fiato, mettendo in campo tutti i codici scenici possibili, da quelli teatrali a quelli letterari per sfruttare al massimo le potenzialità del medium cinematografico e riportarlo in vita con tutta la sua potenza.

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