EUPHORIA e le altre dipendenze di Sam Levinson

Sam Levinson sin dall’esordio Another happy day e nel successivo Assassination nation continua anche nella serie HBO Euphoria ad esplorare il destino di una nazione schiava delle proprie nevrosi

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Il cinema di Sam Levinson è quanto di più vicino ad una iperventilazione emotiva. La catastrofe di un’istituzione come la famiglia, sempre al centro degli universi borderline creati dal regista statunitense, fin dai tempi della sua opera prima, Another Happy Day, comporta la definita sconfitta di valori che ormai posano sulle rovine. Obsoleti, insufficienti a contenere l’odierno psicotico americano pieno di nevrosi. In questo lavoro d’esordio, l’occasione per allineare gli elementi di crisi irreversibile in cui versa questo presunto pilastro della società è un matrimonio. Ed i pochi giorni da passare insieme, prima della celebrazione dell’evento, sufficienti a creare scompiglio ed esasperare gli animi, già in verità interessati da comportamenti compulsivi. Una bomba pronta ad esplodere. Non molto diverso da quello che succede in un film di pochi anni prima di Jonathan Demme, Rachel Getting Married.

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Another happy day

Sette anni dopo l’esordio Levinson torna a lavorare per il grande schermo con Assassination Nation (2018), ricalibrando sull’adolescenza il punto di osservazione sul mondo. Restano le miserie personali, gli eccessi farmacologici, l’abuso di alcool, cambia sempre più drasticamente l’impatto delle tecnologie nella costruzione delle relazioni sociali. Il teen movie diventa un campo privilegiato per sondare l’enorme esposizione mediatica e la relativa riduzione della privacy, grazie ad un accesso elementare e l’apparente ed immediata soddisfazione della vanità. Il college diventa terreno fertile ed ideale per evidenziare la potenza social e le gigantesche distorsioni che è in grado di provocare anche soltanto facendo riferimento a foto e video imbarazzanti, ai ricatti e ai tradimenti che è possibile innescare. Ormai non si parla di trasgressione, le regole semplicemente non le ricorda più nessuno, superate per distacco.

Servendosi di un linguaggio filmico moderno, verrebbe quasi da dire radicale, sicuramente frenetico ed adatto ad un uso bulimico dell’occhio e dei sensi, Assassination Nation porta con sé tutto un discorso di ingiustizia, rivendicazione femminile, e femminista, in un pot-pourri intelligente di stili e generi cinematografici, dal thriller all’horror al teen, of course, che non ha paura di formati e registri differenti e riesce ad integrarli. Il risultato è un montaggio dai continui cambi di ritmo, coinvolgente ed innovativo, pieno di sonorità estreme, cuori impazziti, organi malfunzionanti.

Assassination nation

Modulazione e rimodulazione sessuale, musiche da sballo e odio e amore e confusione e bipolarismo visivo. In Euphoria la crisi identitaria è definitiva e la serie la naturale prosecuzione di un progetto senza soluzione di continuità. In questa prima stagione della serie HBO siamo sempre sulla soglia dell’età adulta, l’ultimo anno di college, ma più del ballo di fine corso, del vestito da indossare, della verginità, andata via da tempo, più del futuro, l’occhio si ferma sul presente che risucchia e condiziona tutto il resto. Gli anelli di congiunzione per evitare di trasformare un racconto di formazione in un compartimento stagno per ragazzi, rendendolo universale, sono ancora le dipendenze, elemento imprescindibile della filmografia di Levinson. L’uso disinvolto delle pillole, i drink fuori dall’orario del lecito, le insicurezze sentimentali rappresentano l’eredità consegnata nel passaggio generazionale.

Euphoria

Un debito per la forma sporca e allucinata, seppure attenuata per un pubblico generalista (e non ha comunque evitato gli strali del Parental Television Council) il cinema di Levinson lo paga sicuramente verso Gregg Araki che nella sua Teenage Apocalypse Trilogy (Totally Fucked Up, Doom Generation, Ecstasy Generation) ha mostrato la deriva irreversibile di una generazione confusa dalla rinuncia impasticcata di ogni ideologia. Facendo davvero terra bruciata e riducendo in polvere, meglio se da sniffare, ogni possibile ponte comunicativo. Parlare di responsabilità dentro nuclei familiari al collasso è un argomento che nel cinema americano vanta numerosissimi esempi, da Gioventù Bruciata (Rebel Without a Cause) di Nicholas Ray, con James Dean e Natalie Wood, a La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) scritto da Tennesse Williams per restare su due titoli classici molto famosi. Considerando le differenze tra un teen ed un family, lo stesso nesso causa-effetto ha trovato spazio anche recentemente nella serialità, basti pensare a This is Us o a Transparent, tutte storie costruite sul non rimosso di un evento traumatico che rappresenta la chiave per guardare al futuro.

Difformi, scomposte, le famiglie di Euphoria sono distrutte dalle malattie, caratterizzate dalla perdita di un padre, di una madre, di qualcuno o di qualcosa di importante per egoismo oppure per amore. Ed i personaggi di conseguenza investiti da una catarsi allucinata, plastica ed illusoria. Supersonica. Alla ricerca di riconoscimento dentro fantasie ciniche, cliniche, insicure, in una continua fuga in avanti dall’ansia prestazionale. Forse la più grande differenza dai modelli passati sta proprio nella coincidenza tra un prima ed un dopo, nel sublimare quotidiano di percorsi che sembrano non avere una via d’uscita alternativa al folle disincanto delle droghe. Che cercano l’invisibilità negata, mancando il diritto all’oblio, in uno sfrontato autolesionismo.

Euphoria

Una voce narrante stordita dall’uso del Fentanyl, quella di Zendaya (regina di follower nella sua vera vita con 64 milioni di seguaci) che interpreta Rue Bennett, serve per una ricostruzione cronologica dei fatti, con la memoria alterata dagli effetti della droga, in pieno processo dissociativo. Un diario tossico che apre delle finestre sulle esistenze di ragazze e ragazzi della  Ulysses S. Grant High School nella Glen Valley, l’edifico alla periferia di Los Angeles tra le location delle riprese di Euphoria, un adattamento di un’omonima serie israeliana del 2012. Cassie (Sydney Sweeney), Nate (Jacob Elordi), Jules (Hunter Schafer), Kat (Barbie Ferreira), Leslie (Nika King), Gia (Storm Reid), ogni personaggio possiede la sua esclusiva disfunzione, un disagio, un bisogno d’annientamento più o meno esibito, una pulsione di morte dirompente ed eccessiva. Tutti dotati di fortissimo potere empatico. Violenza, sottomissione, esibizionismo, voyerismo, l’universo adolescenziale da sempre ricettacolo di turbamento, viene arricchito dei pericoli di una costante sovraesposizione mediatica, i cui rischi vengono perlopiù ignorati, anche a causa della velocità travolgente della rivoluzione digitale. E proprio in quello spazio non governato ed ingovernabile della rete, pieno di tentazioni e promesse di felicità, Levinson intercetta i segnali del disastro, ed alcuni, debolissimi, ed imprescindibili, di speranza. Uno è l’amicizia. L’altro, ça va sans dire, l’amour. Meglio se non virtuali.

 

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