FAR EAST FILM FESTIVAL 7

La più grande vetrina europea sul cinema est asiatico, che si tiene ogni anno a Udine, premia il rigore formale del cinese Peacock e la follia del giapponese Kamikaze Girls. Dal 22 al 29 aprile 2005 si sono susseguiti oltre 60 titoli da 7 nazioni, con pochi svarioni e molte sorprese…

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Il Far East Film Festival di Udine, organizzato dal Centro Espressioni Cinematografiche, si scopre sempre più ambizioso. Giunto alla settima edizione decide di aumentare il numero di proiezioni, di accaparrarsi un secondo spazio espositivo, il neonato cinema Visionario, e di farsi promotore di eventi a tema, tra cui gli scatti del fotografo di scena Jupiter Wong, la mostra sui manga e quella sulle armi giapponesi e indonesiane. Il cinema rimane comunque il fulcro degli otto intensi giorni festivalieri (dal 22 al 29 aprile), con tre segmenti distinti: L'usuale panoramica sulle più recenti produzioni. L'imperdibile retrospettiva sui film dello studio giapponese Nikkatsu, incentrata sulle diverse declinazioni del genere noir/action – tra poliziesco, melodramma e inaspettate derive western. A tal proposito, da recuperare a ogni costo A Colt is My Passport e Season of Heat, roba da riscrivere la storia del genere. Più convenzionali, ma non meno divertenti, lo psichedelico Black Tight Killers, il godardiano The Velvet Hustler e lo scontro/incontro di Gangster VIP. Chiude il panorama uno studio comparato di tre famosi direttori della fotografia, che si sono confrontati in un affollato seminario: il coreano Kim Hyung-hoo (presente con gli intensi Memories of Murder e Peppermint Candy), il giapponese Tamra Masaki (da Lady Snowblood a Desert Moon) e il cinese Gu Changwei (fedele di Zhang Yimou, qui rappresentato da Addio mia concubina e Sorgo rosso).

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Il livello generale della selezione è stato buono, in netto miglioramento rispetto al passato, con particolari picchi per quanto riguarda Hong Kong e Giappone. Poche le delusioni, molti film buoni e un pugno di capolavori. Il piatto forte per Hong Kong sono tre noir duri e veloci, merce rara di questi tempi: in ordine di importanza, il melodrammatico Love Battlefield, il cupo One Nite in Mongkok e il frenetico Explosive City. Da segnalare gli ultimi due film del sempre divertente Edmond Pang, che presenta il malinconico Beyond Our Ken e lo scombinato AV. Il primo, che non ha convinto tutti, è in realtà un'analisi agrodolce sul nascere dell'amicizia tra due ragazzine alle prese con un ragazzo in apparenza premuroso. Al di là della canzone di Gianna Nannini (cover dei CCCP), inserita blandamente nella colonna sonora, rimane impresso per l'abile giostra della sceneggiatura e il finale, che racconta senza patemi quanto i sogni siano illusori e come ciononostante i sentimenti sopravvivano. AV vede invece quattro giovani cercare di recuperare i soldi per affittare una star del porno giapponese, in vista di un finto film che vogliono girare: scopo, naturalmente, sesso facile. A salvare dalla banalità la divertita scelta di mettere a confronto le nuove generazioni, senza idee o ideali, con l'attivismo del passato. Segnalazione per Crazy N' the City, pellicola nostalgica, coinvolgente e inaspettatamente dura, ma con toni da commedia, ambientata tra poliziotti di quartiere, perdenti, madri divorziate, ragazzine spensierate e un maniaco a piede libero.

Il Giappone risponde a tono con il demenziale, divertentissimo manifesto del non senso Kamikaze Girls, storia della stramba amicizia tra una introversa ragazzina che indossa vestitini pseudo-Rococò e una biker tremendamente sboccata. Stupidissime le gag, sparate a ripetizione, gusto post-cinematografico per citazioni e richiami assortiti, eppure non ha un minuto di cedimento. E la morale della favola sul senso di fratellanza e appartenenza, anche contro le regole, riconcilia anche il critico più accanito. Sorpresa per We Shall Overcome Some Day, non tanto – fortunatamente – la solita variazione sul tema di Romeo e Giulietta, ambientata a Kyoto, quanto uno spaccato che dal grottesco vira verso la violenza nel descrivere gli attriti riottosi tra giapponesi e comunità coreana sul finire dei '60: sottofondo sentimentale per una radiografia non edulcorata del difficile anelito all'unione. Delude le aspettative il mélo Crying Out Love, in the Center of the World, che butta via una bella storia di amore adolescenziale, giocata sul ricordo, ripetendo all'infinto lo stesso modulo: didascalico e lacrimevole, si finisce con l'odiare persino la colonna sonora al pianoforte. Tra i lacrimevoli molto meglio il disperato A Family, saga familiare coreana in cui si confrontano un padre single e una figlia invischiata con una banda di sbandati. Per rimanere in campo classico, Road, del veterano Bae Chang-ho, rimane in carreggiata grazie alla sua struttura conservatrice (l'amicizia e l'odio nei decenni tra un fabbro itinerante e un tintore), ma convince poco dal punto di vista narrativo, rimanendo in superficie agli eventi, scorrendo senza colpo ferire. La Corea del Sud ha in effetti presentato pellicole altalenanti. Le commedie Everybody has Secrets e Someone Special sono poco incisive, e i tentativi più personali come Flying Boys scadono nelle lungaggini seriali: la storia di tre amici alle soglie dell'università si disperde nell'interminabile finale a base di balletti e partite di baseball coi genitori.

Al contrario ammalia l'horror R-Point, ambientato nella giungla del Vietnam, che costruisce atmosfere dense, satura l'azione con lunghe pause d'attesa e sfalda l'unione di un commando di soldati coreani in un gorgo di pulsioni che porta alla disfatta dell'uomo contro l'ignoto. Tra gli altri horror visti, interessante l'esperimento cinese Suffocation, curatissimo sia dal lato tecnico che nel tentativo di aggirare la censura (vietati sono gli accenni al paranormale e alle credenze popolari). Buon riscontro anche per quanto riguarda gli altri cinesi presenti. Se la cava Letter from an Unknown Woman, remake dell'omonimo film di Max Ophüls tratto dal racconto di Stefan Zweig, che pur nel trasferimento alla Cina pre-rivoluzionaria e al punto di vista smaccatamente femminile, non perde in trasporto: certo l'originale resta su altri livelli d'intensità, ma ci si può accontentare. Non si accontenta Gu Changwei che, passato alla regia, sorprende tutti con Peacock, già orso d'argento a Berlino: due ore e venti di intenso cinema minimal-familiare, commovente, sincero e per nulla conciliante. La Tailandia si arrabatta, ma riesce ad assemblare l'orgia di stunt e patriottismo Born to Fight, costosissimo action ginnico che sorpassa in avventatezza le acrobazie di Jackie Chan o di Ong Bak (da vedere per crederci gli outakes finali), e il sanguinolento thriller Zee-Oui, su un poveraccio cinese che, dopo le angherie subite, si trasforma in un serial killer d'infanti.


Poche le eccezioni davvero inguardabili. Il fanta-bellico Lorelei: the Witch of the Pacific Ocean, indigesto polpettone giapponese sul solito sottomarino che salva Tokyo da un ordigno nucleare, con tanto di dialoghi pomposi, lacrime posticce e un incedere che solo il peggior Michael Bay si sarebbe augurato. Non meglio l'irritante horror tailandese Art of the Devil, debacle di Thanit Jitnukol (lontani i tempi di Bang Rajan, a quanto pare) o il dramma socio-erotico coreano Green Chair, che assomma scene di sesso finto-scandalose tra una trentenne e un ragazzo non ancora maggiorenne a  una (orrenda) farsa situazionista finale, con tanto di dialoghi fissi in macchina da presa. Poco riusciti, ma tutto sommato perdonabili, l'esotico Pontaniak – Scent of the Tuber Rose, interessante quale unico film malese, pregno di situazioni colorate, pur se privo di baricentro narrativo, e il filippino Mr. Suave, terribile commedia generazionale infarcita di balletti e ammiccamenti: regista e cast sono anche simpatici, ma il risultato è del tutto fuori luogo.

 


AUDIENCE AWARD


Il premio del pubblico viene assegnato secondo la media dei voti (da 1 a 5) espressi dagli spettatori.


1) Peacock di Gu Changwei (Cina)


2) Kamikaze Girls di Nakashima Tetsuya (Giappone)


3) Someone Special di Jang Jin (Corea del Sud)


 

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