#FCAAAL27 – House in the fields, di Tala Hadid

Un film splendidamente e invisibilmente elaborato e dunque straordinariamente vero, sempre illuminato da una luce speciale.

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Esattamente due anni fa, su queste pagine avevamo segnato vari punti a favore di Tala Hadid che con il suo The narrow frame of midnight, sempre nell’ambito della rassegna milanese, ci aveva emozionato con un utilizzo assai maturo della macchina da presa e delle possibilità offerte dalle innumerevoli strutture del racconto. Non si smentisce la regista marocchina due anni dopo. La sua composita e ricca cultura multietnica, sembra metabolizzarsi perfettamente nelle immagini che ci restituiscono la complessità naturale e mai posticcia della finta realtà.
Sotto questo profilo House in the fields, nella sezione del Concorso lungometraggi, pone House in the fields, FCAAAL27da subito un tema di riflessione che appartiene esclusivamente alla visione in rapporto alla genesi delle immagini, al loro prendere forma. Poiché però, questa ricchezza di temi che le immagini suggeriscono nella loro stratificata natura, non può essere casuale, ma frutto di una scelta artistica coeva alla nascita del progetto, House in the fields diventa film laboratorio nel quale il lavoro preparatorio avrà costituito senz’altro un momento decisivo e irrinunciabile per la realizzazione del progetto.
Non è un diario, per quanto la regista abbia convissuto per sei anni, a periodi alterni, con le comunità che sono diventate protagoniste del suo lavoro e non è neppure un reportage poiché non vi è cronaca e soprattutto nessun evento particolare che avrebbe potuto spingere la cineasta a testimoniare i fatti con la sua cinepresa. Quindi la realizzazione di questo film nasce come un’esigenza artistica, solo dal desiderio di trasmettere parti di una vita e farne poema del quotidiano. E qui arriviamo al tema della sua visione.

House in the fields,Le immagini della Hadid non perdono, mai, neppure per un istante la potenza e il controllo assoluto di quanto vogliano esprimere. Il racconto si carica sempre, nel momento della consegna dell’immagine allo spettatore, di altri significati che non sono la ripresa pure e semplice di una dinamica del reale, anzi, l’autrice lavora moltissimo sulla costruzione dell’immagine, su come calibrare i colori della fotografia e soprattutto lavora molto sulla sua composizione grafica. Ma questo lavoro non diventa mai traccia visibile e si potrebbe dire eccessiva nel momento della sua manifestazione, ma, come si provava a dire si innesca un processo di metabolizzazione per cui il lavoro sembra scomparire, restituendo soltanto (ma è tutto!) il risultato purissimo di questa fatica compositiva come qualcosa di naturale, come ciò che altrimenti non può essere.
Ecco quindi che House in the fields pur raccontando le vicende di una famiglia e di una più ampia comunità che vive di pastorizia sulle montagne dell’Atlante, si trasforma piuttosto in un libro aperto di sentimenti, tutti quelli che emergono dai volti, mai banalmente inquadrati dalla Hadid, nei pensieri sussurrati che ricordano il migliore House in the fields, 1Malick di La sottile linea rossa, nelle terree sabbie che formano l’orografia di quei luoghi e le riprese in casa quando la macchina da presa sembra familiarizzare con le pareti domestiche. Tala Hadid ha un occhio segreto che emerge con forza quando compone per immagini, trascurando ogni finta realtà (non se può quasi più di questi documentari quasi tutti uguali in cui la cifra stilistica sembra essere quella di qualcuno che viene ripreso mentre lava i piatti o rigoverna la casa, con quei dialoghi finto-vero, così tanto finti da non trasmettere alcuna verità). Il cinema non è la verità, il cinema è l’arte del falso e diventa verità solo quando quest’ultima emerge, quando risale con leggerezza in superficie, senza sforzo, ma frutto di una orchestrazione, di una messa in scena tanto falsa quanto sentitamente vera. Tala Hadid ha spontaneamente recepito questi assunti e il suo è un cinema splendidamente e invisibilmente elaborato e per questo straordinariamente vero, illuminato da una luce speciale che continua a stupirci, ad accoglierci benevolo tra le pieghe delle sue verità a ventiquattro fotogrammi al minuto.

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