#FCAAAL27 – Live from Dhaka (A. M. Saad), El Amparo (R. Calzadilla)

Due incubi: uno metropolitano immerso in un grigio polveroso e uno cui fa da sfondo la foresta venezuelana che custodisce i segreti di quei fatti

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Live from Dhaka dell’esordiente Abdullah Mohamad Saad si nutre di un’atmosfera da incubo. La storia si consuma dentro una metropoli soffocante le cui ambientazioni tetre sono amplificate dal bianco e nero polveroso che smorza ogni contrasto, illividendo il film in un grigio uniforme che sembra stampare sulla vicenda una ancora più drammatica evidenza.
Il protagonista Sazzad è senza lavoro, è claudicante con un eterno dolore ad un ginocchio, il fratello, tossicodipendente gli chiede continuamente soldi, è inseguito dagli strozzini ai quali è stato costretto a chiedere un prestito, le cose con la sua ragazza non vanno bene e scoprirà che è pure incinta e gli chiede i soldi per abortire, ma lui è un tipo violento e Live from Dhakageloso e la maltratta, unico suo bene un’automobile che resta bruciata durante una rivolta studentesca. In altre parole Sazzad sembra essere il bersaglio privilegiato di ogni sventura. Decide di emigrare in Russia, ma gli negano il visto. Opta per la Malesia affidandosi ad un equivoco trafficante.
Live from Dhaka, selezionato per il festival di Rotterdam e qui nel concorso principale, è quindi un film che definire cupo è quasi banale. Raramente abbiamo assistito ad un incubo metropolitano più profondo e intimamente inquietante come il film d’esordio del regista del Bangla Desh. Non è tanto per la perenne sfortuna che perseguita irrimediabilmente uno dei personaggi più terribilmente sciagurati mai visti al cinema, ma è il clima oppressivo in cui si svolgono le vicende di Sazzad. Il suo è un continuo vagare per una città eternamente buia, non solo perché immersa in una luce naturale che sembra inesistente, tanto è livida e uniforme, quanto per i luoghi frequentati dal protagonista. Baraccopoli e anfratti cittadini, tuguri nei quali i suoi incubi notturni si confondono con quelli diurni e con la sua vita stessa. Sazzad vaga continuamente, si muove, sembra senza una meta, in una città inospitale e minacciosa. Ma Saad ha una mano ferma e il suo film privo di qualsiasi piega di compiacimento verso il pubblico, disegna una condizione esistenziale che sembra

El Amparo, Rober Calzadillaambire ad ottenere un raggio più ampio di inclusione oltre che lo sguardo sul suo personaggio. La storia privata di Sazzad assediato dai creditori e dalle sue altre disgrazie, nonostante sia centrata su di lui, sempre immerso in una solitudine assoluta che lo trasforma in una specie di animale braccato, sembra diventare, nel finale tragico dopo il tentativo fallito di fuga verso la Malesia, una condizione sistenziale più diffusa e la scoperta di una fossa comune di emigrati, apre piani di interpretazione più larghi e la condizione personale, si trasforma in collettiva. Un film carico di inquietudini, che sembra inabissato in un vortice dal quale il protagonista non riesce ad uscire. La misura stilistica del suo autore si trasforma in consequenziale introspezione e il grigio, in cui tutto si confonde e le luci deformate da una pioggia per nulla rigeneratrice che batte sul parabrezza dell’auto di Sazzad, diventano minacciosi presagi dell’anticamera dell’inferno. Si, forse Saad firma un vero film infernale, un incubo che non può dissolversi, un film vampiresco, una tragedia umana di assoluto pessimismo.
Non siamo poi molto distanti da queste atmosfere con l’altro film in concorso nella sezioneEl amparo, Calzadilla dei lunghi El Amparo. Il venezuelano Rober Calzadilla riprende una vicenda di molti anni fa, accaduta al confine tra Colombia e Venezuela nel piccolo villaggio di El Amparo. Un gruppo di pescatori parte per una battuta i cui risultati saranno ben pagati. Torneranno solo in due. Gli altri resteranno uccisi dall’esercito venezuelano che li aveva scambiati per terroristi. La verità verrà a galla molto lentamente e i veri responsabili della strage non sono mai stati puniti.
Al di là del doloroso fatto di cronaca dal quale Calzadilla parte e che racconta con veemente convinzione tanto che il film ha riscosso consensi e ottenuto premi un po’ in giro per il mondo, quello che è interessante nell’operazione produttiva è il taglio narrativo, a metà tra un docu-film e un film di finzione. La soluzione del regista venezuelano e della sceneggiatrice Karin Valecillos, conferisce alla vicenda una credibilità insolita. Al generarsi dei fatti il film sembra fremere di propria vita. Non è solo una questione di ritmo che sicuramente è stato ottenuto dall’accavallarsi degli avvenimenti, dalla capacità di elidere i tempi morti, trasmettendo gli ansimi della concitazione, ma quello che conta qui è l’abilità nel costruire il crescendo della vicenda che disorienta e lascia El amparoincreduli gli spettatori.
Rober Calzadilla dimostra di conoscere molto bene le strutture narrative applicate al cinema e il suo film resta un ottimo esempio di contaminazione perfettamente riuscita tra due diversi modi di concepire la narrazione. Il film sembra essere stato girato negli stessi momenti dell’accadere dei fatti, tanto è febbrile la sua messa in scena. Non vi è dubbio che la scrittura abbia attinto da una storia con un potenziale molto forte sia in termini emotivi, sia sotto il profilo della forma narrativa da applicare. Una violenza silenziosa è protagonista assoluta, sentita, ascoltata e letta sui volti dei protagonisti, su quelli dellle vittime e dei carnefici, sul volto delle mogli che hanno perduto i loro uomini. Ma nel film non riecheggia uno sparo, non vi è neppure un filo di sangue. Ulteriore scelta drammaturgica questa che qui va letta come forma di opposizione rispetto alla conduzione della vera vicenda e di quei fatti conosciuti grazie a questo film, accaduti in una terra sempre al centro di violenze inaudite. El Amparo ha quindi anche il merito di avere lasciato una traccia per quelle quattordici vittime innocenti. Il cinema a volte si fa esso stesso storia da sfogliare con la passione civile del ricordo.

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