#FCAAAL28 – Concorso cortometraggi africani

Tredici i film in lizza che hanno offerto al pubblico una panoramica di buona qualità e soprattutto uno sguardo più leggero sul mondo.

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Il giudizio manifestato sull’alto livello dei film in Concorso che ha caratterizzato l’edizione numero 28 del Festival che con le cronache si è provato a raccontare, si deve considerare estesa anche per il Concorso dei cortometraggi africani. Tredici i film in lizza rappresentativi di quasi altrettanti Paesi africani che in coproduzione con quasi altrettanti Paesi europei, ma per un film collaborano anche gli Stati Uniti, hanno offerto al pubblico del Festival una panoramica di buona qualità e soprattutto, rispetto al passato, in generale uno sguardo più leggero sul mondo con qualche tratto di commedia in più e, in questi casi, una autoironia che per quello che riguarda questi film va declinata tutta al femminile.
Aya, il film tunisino vincitore della sezione, di Moufida Fedhila, già premiato alle Giornate del Cinema di Cartagine, riflette sul tema religioso e sull’insegnamento che se ne dà in famiglia e a scuola. La piccola Aya è divisa tra il senso di libertà e le imposizioni del padre religioso quasi integralista, così come è diviso il suo apprendimento tra scuola laica e scuola religiosa. Contraddizioni che peseranno sulla vita della piccola Aya che in entrambi i casi si trova fuori luogo e senza riferimenti precisi. Un racconto efficacemente didattico, senza particolari colpi di coda che si fonda su una istintiva empatia con la piccola attrice protagonista.
Sempre dalla Tunisia, il divertente e scoppiettante Bolbol, della regista Khedija Lemkecher. La storia della intraprendente Bolbol, festaiola che si intrufola nelle feste matrimoniali che si svolgono nella sala sotto casa sua, si adatta ad ogni tipologia sociale. Integralisti o scatenati giovani con musica techno. La regista ha lavorato dal vero e le situazioni del film non sono un’invenzione di sceneggiatura. Un racconto che è quindi

presa diretta dal vivo, con la famosa Fatma Ben Saïdane che da corpo ad una scatenata e al contempo misurata Bolbol. Molto divertenti i siparietti familiari che pennellano il rapporto di complicità amorosa tra la scatenata Bolbol e il suo paziente marito. Un film che meritava qualche segnalazione in più anche per i toni divertiti della sfida che lancia nei confronti delle contraddizioni di quella società.
Hairat della messicana, ma etiope di origine, Jessica Beshir è un’incursione potente, nonostante i suoi sette minuti, nel possibile rapporto uomo animale. Un uomo alla periferia di Harar, durante la notte, convive con le iene. Un bianco e nero spietato, in cui i tagli di luce sembrano preludere ad un horror inconsueto.
Forse ogni luogo ha la sua Via Castellana Bandiera e sicuramente il film di Emma Dante tornerà in mente a tutti quelli che vedranno Into reverse della giovane egiziana Noha Adel. Nel centro di Il Cairo un uomo che guida contromano pretende che la donna, che marcia in direzione corretta, faccia retromarcia per farlo passare. Il traffico resta bloccato e lo spettacolo è assicurato. Divertente ed efficace nella rappresentazione microcosmica della società egiziana (solo quella?), tra arroganze di genere e ipocrisie religiose. Teatro di strada e, con i suoi grandangoli, rappresentazione iperbolica del reale.
Da menzionare sicuramente tra le cose di qualità della sezione il molto interessante Imfura del giovane giornalista ruandese Samuel Ishimwe. Il ritorno al villaggio che fu di sua madre costringe Gisa a partecipare ad una disputa tra due zii per la vendita o meno del terreno sul quale è costruita la casa dell’infanzia della madre e del fratello e della sorella in disputa. La madre di Gisa è stata trucidata durante il genocidio dei Tutsi. Uno sguardo trasversale su quella terribile pagina della storia recente. ll genocidio a più di vent’anni di distanza, la stessa età del protagonista, resta ancora a segnare le coscienze dei sopravvissuti. La casa materializza il ricordo e il giovane Gisa sembra prendere definitiva coscienza dei fatti e della terribile storia del suo Ruanda.
Di buon livello complessivo anche gli altri film dal keniano Chebet di Tony Koros, al marocchino Behin the wall di Karima Zoubir o al senegalese Mama Bobo, tutto malinconicamente legato alla memoria, un po’ sulla scia di un giovane Sambené, di Robin Andelfinger e Ibrahima Seydi.
Il cortometraggio, da sempre forma espressiva dotata di una propria autonomia e da non considerarsi una sorta di lungometraggio compresso, diventa però sicuramente banco di prova degli autori e non a caso alcuni di questi (Khedija Lemkecher e Jessica Beshir ad esempio), hanno in preparazione il loro primo lavoro lungo. Il Festival di Milano ha offerto un’ottima qualità che fa bene sperare per il futuro di questi giovani autori. Il problema, come sempre è quello della produzione e della ricerca affannosa dei capitali. Ma qualcosa sembra muoversi anche in Africa che ancora non sembra però completamente affrancata da antichi e radicati rapporti con nazionalità già protagonisti della altrettanto passata colonizzazione.

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