FCE18 – Incontro con Valerio Mastandrea

L’attore romano, ospite del Festival del Cinema Europeo, ritira l’Ulivo d’Oro alla Carriera e parla di cinema, teatro, didattica, famiglia, commedia ed impegno civile. Una retrospettiva lo celebra

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Atterrato a Brindisi in mattinata, Valerio Mastandrea si è precipitato a Lecce e, tanto per gradire, ha dovuto affrontare oltre seicento studenti che avevano appena visto il suo ultimo film, Fai Bei Sogni, di Marco Bellocchio (“dormivano tutti, li ho dovuti svegliare io”). Quarantacinque anni compiuti il 14 febbraio scorso, l’attore romano è il primo grande ospite della XVIII edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce – che lo omaggia con l’Ulivo d’Oro alla Carriera e con un’ampia ed esaustiva retrospettiva della sua filmografia – e non delude le aspettative: si destreggia con disinvoltura tra un registro emotivo e l’altro, giostra tra il serio al faceto, passa dal ricordo emozionato alla sfumatura ironica. E ancora, parla di studio e di impegno didattico per il cinema e, un attimo dopo, ricorda con tempi da comico consumato il primo incontro casuale con il grande schermo; si sofferma sull’importanza di difendere da cittadini il proprio territorio e di scendere in campo per questioni che dovrebbero suscitare la coscienza di ognuno e, subito a ruota, scherza sulla sua ritrosia alla competizione e sulle anticipazioni per il prossimo lavoro. La conversazione con la giornalista e scrittrice Laura Delli Colli scorre piacevole e divertente.

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Si parte dalla esperienza di produttore e montatore, chissà se solo una parentesi, intrapresa per cause di forza maggiore, la scomparsa dell’amico regista Claudio Caligari il 26 maggio 2015, quando ormai Non Essere Cattivo – terza ed ultima pellicola del compianto regista piemontese – era quasi ultimata. Un’attività nella quale Mastandrea si è impegnato con dedizione e coraggio, spendendosi in prima persona ed arrivando a pubblicare sulle pagine de Il Messaggero un appello a Martin Scorsese affinché intervenisse a sostegno della pellicola. “Dopo un’esperienza del genere, indubbiamente la voglia di cimentarsi in un film da regista è diventata reale, una vera e propria spinta”. Al suo attivo dietro la macchina da presa, infatti, l’attore romano ha soltanto un titolo: un cortometraggio del 2005, Trevirgolaottantasette, su soggetto suo e di Daniele Vicari, che affronta un tema forte ed impegnativo come quello delle morti bianche. “Per fare un film devi sentire dentro la voglia di raccontare qualcosa veramente, molti la chiamano urgenza… diciamo che ho sentito questa urgenza. Poi, naturalmente, devi trovare le persone disposte a crederci con te, quelle con cui scriverlo, insomma le persone giuste con cui metterlo in piedi”. E queste persone giuste sembrano essere proprio i collaboratori abituali di Caligari: un team che non è fatto solo di attori e di tecnici – che non sempre sono gli stessi – ma di piccoli produttori, profondamente uniti dopo la recente e dolorosa esperienza di Non Essere Cattivo.

MastandreaCosa si porta dietro Mastandrea dei vari registi che ha conosciuto e con cui ha lavorato? Ci sono delle figure alle quali, in qualche modo, si sente più legato? “Sì, ma questo vale anche per quei film che, una volta guardati, non ho amato particolarmente. Io mi porto dietro tutto delle mie esperienze sul set. In questo mestiere c’è bisogno di pantaloni con le tasche larghe: devi portarti dietro tutto e non devi avere paura, anche, ad un certo punto, di buttare via delle cose. Ho imparato tanto da tutti e spero di poterlo continuare a fare. E quando dico tutti non parlo solo di Marco Bellocchio, un regista di cui tutti riconoscono la particolarità e la grandezza. Anche da un esordiente si impara tanto e da attore questo ho avuto modo di sperimentarlo. Ad esempio, sono state molto importanti le opere prime, l’esperienza con Daniele Vicari mi ha insegnato tantissimo. Parlo anche di qualche cortometraggio, di quelli da battaglia e diretti da persone che poi non hanno più fatto i registi. Anche in quei casi apprendi, impari a conoscere te stesso sulla tua pelle e impari il mestiere”.

Recente David di Donatello come Miglior Attore Non Protagonista per Fiore di Claudio Giovannesi, Mastandrea ripercorre con ironia quel meccanismo concorsuale della competizione che lo ha spesso portato ad essere candidato nella cinquina o nella terna dei finalisti e, non ultimo, a raccogliere riconoscimenti a man bassa. “Anche il film di Bellocchio è stato molto importante per me, proprio a livello personale l’ho vissuto in maniera molto forte. Però i film come Fiore e le persone che incontri nel girare film del genere ti lasciano sempre qualcosa. Ero contento non per il premio, ma perché magari questo riconoscimento potrebbe dare un input ai produttori ad impegnarsi a finanziare un maggior numero di film simili, perché io amo vedere film come questi, prima ancora di interpretarli. Poi non ero contento di averlo vinto, tenendo conto della cinquina dei candidati con i quali concorrevo, questo perché c’erano attori che stimo moltissimo e che fanno questo lavoro da molti più anni di me e non hanno mai ottenuto dei riconoscimenti, pur meritandoli. Penso a Roberto De Francesco o a Massimiliano Rossi, il bravissimo interprete di Indivisibili. Infatti, quando hanno mandato la pubblicità, sono andato da loro e ho detto che mi dispiaceva davvero. Del resto, io non sono competitivo, se escludiamo nei confronti di quelli che competitivi lo sono davvero e mi stimolano ad esserlo. Ma quasi sempre con questi ultimi perdo. Ma non mi piace questo aspetto del mio mestiere, questa sorta di gara, nel nostro lavoro nessuno può vincere a scapito di un altro perché è un lavoro collettivo e lo si fa tutti insieme. Poi, per carità, fa piacere ricevere un riconoscimento, ma davvero ho pensato a Roberto che negli anni Novanta ha fatto film bellissimi, avrei voluto tirarglielo dietro, il premio”.

20170404_203640L’attore romano si dichiara pronto a rifare tutti i film che ha interpretato, anche quelli che, a guardarli, non gli sono particolarmente piaciuti, ma, pur senza fare nomi, lascia intendere che non tornerebbe a lavorare con qualche regista del passato (“d’altra parte loro lo sanno benissimo”). Ci sono poi quei registi con cui si è fatto un percorso comune ed è anche molto difficile, ad un certo punto, staccarsi da loro per il rapporto reciproco che si crea: non tanto e non necessariamente perché un rapporto resta, ma perché è una questione legata alla crescita umana e professionale.

Esilarante il momento in cui viene rievocato l’approccio casuale con il cinema. Tutto inizia con un occhio nero, ma non chiedetegli come se lo sia procurato, non si può dire. È il 1994 e c’è l’amica Vera Gemma, la figlia di Giuliano, da accompagnare ad un colloquio con il regista Piero Natoli, con quest’ultimo che rimane colpito a tale punto dall’espressione “livida” del ventiduenne romano da offrirgli una piccola parte. Il film in questione si chiama Ladri di Cinema e parla di un regista che mette insieme una troupe per recuperare una sua pellicola che era andata persa nei meandri di un ufficio di produzione. “E così il mio primo ciak fu con un occhio nero, un braccio ingessato e davanti ad un ospedale. Diciamo che ho capito subito che per fare questo mestiere avrei dovuto sacrificare la salute”.

Eppure, quello stesso attore che comincia a recitare “per caso” diventa poi un attore che ritiene fondamentale il metodo e la disciplina. “Non ho cominciato un lavoro che bisognerebbe cominciare, secondo me, perché studiare e relazionare lo studio a questo mestiere è ritenuta quasi sempre una cosa facile e rapportata ad un discorso di passione ed arte. In realtà, se c’è il fuoco sacro ad un certo punto si spegne, devi sapere anche come alimentarlo costantemente, anche da un punto di vista tecnico, non solo motivazionale. Di tanto in tanto mi reco presso la nostra scuola e parlo con i ragazzi, giro in mezzo a loro, chiedo loro come va e, in un certo senso, li demotivo tantissimo dicendo loro che fuori, quando finiranno gli studi, ad aspettarli ci saranno innumerevoli difficoltà. Però cerco sempre di far capire che loro sono meglio di me e che potranno essere meglio di me perché hanno avuto una possibilità reale ed è così che vanno fatte le cose, come fanno loro. Studiare recitazione e tutti gli altri mestieri del cinema: questa è la nostra scuola, ognuno studia tutto, ci sono dieci materie. È molto importante il percorso didattico, un discorso che nel nostro paese non è che eccella, sono poche le strutture interessanti. È necessario studiare, è una cosa bella”.

Mastandrea ricorda poi l’esperienza teatrale del 1998-1999 al Sistina nel ruolo di “Rugantino”, un passaggio tra l’altro molto lontano dal tipo di cinema che lo vede spesso protagonista, ma che si è rivelato in fondo un momento molto forte, anche in termini di rapporto con la città, con la popolarità e con la romanità: “Dopo le prime cinque repliche, sapendo di averne davanti altre 250, mi sono sentito in carcere. È stata però una grandissima scuola di vita, prima ancora che professionale. In relazione al lavoro, quello spettacolo l’ho portato avanti in qualsiasi condizione di salute, con quaranta gradi di febbre, con un ascesso, con il colpo della strega, perché bisognava andare in scena. Da personaggi come Garinei e Trovajoli ho appreso quella che è la sacralità di questo mestiere. Era uno spettacolo di quattro ore fatto da 45 persone, una cosa pazzesca, ogni giorno c’erano mille spettatori. E finiva che dopo cinque giorni io non vedevo più nessuno davanti a me, diventava più che altro una questione di portare a casa la pagnotta. Essendo poi un attore che vive molto di umori e di risvolti emotivi, non facevo uno spettacolo sempre uguale. Garinei ogni sera veniva in camerino con un foglio con sopra dei suggerimenti scritti e aveva sempre ragione. Aveva una conoscenza tale di quello spettacolo e del pubblico da non sbagliarsi mai”.

C’è una coincidenza particolare in questa XVIII edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce: la presenza contemporanea di Mastandrea, di Ferzan Özpetek e di Isabella Ferrari, protagonisti qualche anno fa di Un Giorno Perfetto (2008). Un film molto duro ed intenso, in cui Mastandrea a suo tempo si calò con lo spirito giusto, ma che oggi come oggi confessa che non riuscirebbe forse ad interpretare, adesso che è padre e che vive delle dinamiche più vicine a quelle descritte nella pellicola del regista turco.

A proposito di figli, l’attore ha più volte espresso l’idea che un figlio sia il legame più forte della vita. Questo detto dal Mastandrea padre, ma il Mastandrea figlio – per altro con una madre ancora molto giovane quando ha cominciato ad affacciarsi nel mondo del cinema – che ricordi ha delle reazioni e delle discussioni che a questo proposito si facevano in casa? “I miei hanno accolto benissimo la cosa, a parte mia nonna che per tanti anni, già quando ne avevo quindici, mi diceva che dovevo fare le fiction e che avrei fatto un sacco di soldi. Mia nonna è stata la vera attrice della famiglia, è stata quella che faceva Beckett nel dopolavoro, una tale rottura di palle. Finale di partita l’ho visto fatto da mia nonna, altro che storie”.

Ma la commedia a Mastandrea piace? L’attore afferma di amare molto un certo tipo di commedia, ma non commenta i recenti risultati – piuttosto deludenti – al botteghino delle commedie nostrane. Forse di mezzo c’è l’annoso equivoco che porta a confondere la commedia con il comico, laddove tutti sappiamo che la commedia all’italiana è altra cosa, sono quei film che in America chiamerebbero comedy life, proprio nel senso che raccontano la vita con questo approccio. “I film di Virzì sono commedia, anche quelli che trattano tematiche dolorose. Mi sono sempre divertito tantissimo con Paolo e devo dire che con lui ho fatto cose bellissime e che mi sono piaciute. Sto lavorando da tre anni ad un progetto con Paolo e mi ha detto che verrà fuori un film triste ma che fa ridere. Come me, gli ho detto. Esatto, come te, mi ha risposto. Sarà un film audace nel trattare un tema forte con un approccio leggero. Ma non voglio parlarne, non ne sarei capace e rischierei di banalizzare, manca ancora un anno per completarlo. Posso solo dire che si tratta di cercare di mettere a fuoco e metabolizzare la perdita di qualcuno nel momento in cui diventa, ad un certo punto, una perdita collettiva, mediatica, politica, se vogliamo, e di come le persone che la subiscono direttamente non riescano a viverla in maniera autentica. Lo so, detta così sembra una gran rottura di palle. Vedremo se riusciremo a far ridere con un pizzico di malinconia, anche se la protagonista principale è una donna che non può essere definita malinconica, a differenza di altri personaggi. Sarà un film piccolo, ma mi auguro potente”.

Chiusura sull’impegno civile: “Sarei tentato di lasciare l’Ulivo dOro qui in segno di vicinanza alla lotta che si sta sostenendo contro il gasdotto”. L’attore indossa una maglia con la scritta “NO TAP” e raccoglie l’ovazione del pubblico leccese.

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