FESTA FRANÇOIS TRUFFAUT – Truffaut/Doinel/Léaud

Il ciclo Doinel è un'anomalia apparente: in vent'anni, dal 1959 al 1979, Truffaut lo segue, in cinque film, col suo sguardo stupito, perplesso, vago. E si gode la possibilità di praticare un cinema pienamente soddisfacente, che si confonde col corpo del regista e che è, definitivamente è, la voce di Truffaut.

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Il ciclo Doinel è un'anomalia apparente: in vent'anni, dal 1959 al 1979, Truffaut segue, in cinque film, col suo sguardo stupito, perplesso, vago, i movimenti di Jean-Pierre Léaud/Antoine Doinel. Lo scruta come un cacciatore, come un investigatore: non è un caso che in uno dei film di questa serie, Doinel faccia proprio l'investigatore privato…

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Anomalia apparente, dicevo.

In realtà se il cinema di Truffaut ha tanto successo, è perché vive la fortuna di essere un cinema che tesse testi d'amore, che si concede il lusso di seguire il desiderio di chi lo pratica (più degli altri): Truffaut, appunto.

Non è un cinema fatto per incassare – l'obiettivo, magari necessario, non è mai quello e, comunque, non è mai esibito. Truffaut costruisce film per rispondere a domande delle quali non sa la risposta. Desidera capire, sapere, anticipare. Il ciclo Doinel attraversa, in tal senso, praticamente tutta la sua filmografia – sto, insomma affermando che questo progetto "involontario" – quello di raccontare la genesi e le metamorfosi di un personaggio attraverso più film – in realtà coincide con la vita stessa e con tutti i film del regista.

Truffaut si gode la possibilità di praticare un cinema pienamente soddisfacente, un cinema che si confonde col corpo del regista e che è, definitivamente è, la voce di Truffaut.

Un cinema di desiderio, di godimento, di piacere. È questo ciò che ci viene trasmesso, è questo ciò che percepiamo.

A scorrere la filmografia, sembra quasi che Truffaut avesse la necessità di ricordaci, attraverso la voce di Doinel, che lui era là, che era sempre il suo volto quello che si rifletteva in tutte le sue pellicole, che era il suo cuore a dare ritmo alle immagini, il suo corpo a strutturare – magari in modo anomalo e imperfetto – le storie. Storie che, sempre, parlavano di lui, delle sue perplessità, dei suoi piaceri, delle sue passioni – il cinema, la letteratura, l'arte, l'amore per l'insegnamento, l'importanza della scuola (devastante nei Quattrocento colpi, salvata negli Anni in tasca), le donne ovviamente.

Il ciclo Doinel: cinque film, due raggruppamenti.

Da un lato I quattrocento colpi, dall'altro il resto.

Da un lato la sofferenza, l'adolescenza, i colpi inferti a chi è troppo giovane, la presenza oscena di una famiglia che non capisce. Dall'altro il mondo piccolo borghese, il mondo di chi ha trovato un posticino caldo dove stare. Un mondo ancora misterioso, governato dalla presenza imbarazzante e indecifrabile dei sentimenti. Delle donne.

Una grande confusione: Truffaut è Doinel che è Jean-Pierre Léaud…

Antoine Doinel è riuscito, in qualche modo, a farcela, a svicolare dai sentimenti violenti e perversi della famiglia – che, come la scuola, non lo capisce, non gli crede, non gli dà retta. Antoine Doinel trova, nello stesso momento, nella solitudine la propria libertà. Ma è realtà effimera: già in Antoine e Colette (un cortometraggio del '62), Doinel cerca, nelle donne, di pacificare quel sentimento irrazionale che chiamiamo amore. Truffaut insegue questa parola, cerca di trovarne una spiegazione, spinge il suo personaggio a vivere situazioni diverse, vite diverse.

Doinel ha, ora, sedici anni. Incontra Colette, se ne innamora, le fa la corte, simpatizza con i genitori di lei – che lo adorano. Ma, mentre lui rimane a cena con il padre e la madre, Colette esce col fidanzato, con un "uomo" del quale è innamorata – Antoine è immaturo, forse.

Ecco, questa condivisibile "immaturità", rimarrà elemento caratterizzante di un uomo che, nei sentimenti, non troverà mai pace, mai equilibrio. Continuerà a innamorarsi incessantemente, preso da una frenesia amorosa che non si sazia né di quotidianità né di serenità familiare. È come se il senso di soddisfazione amorosa fosse stato definitivamente messo in crisi da una donna, impossibile da raggiungere e da conquistare: la madre.

La madre di Truffaut era una donna molto bella – il ritratto impietoso che il regista ne fa ne I quattrocento colpi, tuttavia, chiarifica le dinamiche di un rapporto per niente pacifico, per niente piacevole. Eppure lui "l'ama".

Ma questa è solo una delle possibili interpretazioni. L'immaturità può essere un concetto "apparente", ingiustificato, falsificante. È possibile immaginare un'alternativa meno comoda, che diventa caratterizzante per una tipologia umana (impossibile dire quale sia la percentuale di maschi che la condivida) per la quale innamorarsi è l'unica possibilità di amare. Nessuna pausa, nessuna sosta possibile – garantita dall'amore. Solo un continuo movimento dato da una spinta, magari ormonale, che non ammette tregue, che rende gli individui che ne sono… affetti, continuamente squilibrati e dinamici. Previo, però, subire il fascino di ciò che è fermo, di ciò che è stabile, di ciò che è in equilibrio. Ci si innamora continuamente portandosi dentro il desiderio, costantemente frustrato, di vivere la "fermezza" dell'amore.

Doinel è così. Forse è così Truffaut stesso.

Le storie vanno avanti, cambiano le donne, compaiono volti, gambe, sguardi. Talvolta scompaiono, spesso ritornano.

In Domicile conjugal (in italiano l'abbiamo tradotto Non drammatizziamo… è solo questione di corna, del 1970), Antoine tradisce Christine con una bella giapponesina, tradisce colei per la quale aveva dovuto lottare non poco per potersela sposare.

D'altra parte, precedentemente, in Baci rubati (1968), pur facendo la corte a Christine, Antoine aveva goduto dell'innamoramento per la matura moglie di un commerciante – che avrebbe dovuto sorvegliare…

Le presenze femminili si addizionano, si moltiplicano…

Bertrand, il protagonista di L'uomo che amava le donne, non è Antoine: è più maturo, più determinato, meno superficiale. Eppure il suo rapporto con le donne non cambia: i suoi ragionamenti rimandano a un mondo fascinoso – quello del femminile – del quale è impossibile fare a meno. E la stessa cosa viene ripetuta, con tinte definitivamente tragiche, ne La signora della porta accanto.

Truffaut non riesce a liberarsi da questo pensiero dolcemente persecutorio. E Doinel è la sponda, tutto sommato, capace di pacificarlo, di sistemare all'interno di una semplicità da commedia, gli affanni di un cuore che non cessa di battere all'impazzata.

L'amore fugge, senza chiudere alcun discorso sull'amore, mette fine a un ciclo, è l'ultima parete di una casa nella quale è piacevole abitare. I drammi del cuore permangono, affettuosamente vissuti. E Antoine, in quest'ultima puntata, ricorda di come sia impossibile, per una certa categoria di uomini, probabilmente, dimenticare tutte le proprie donne, ognuna portatrice sana di un odore impagabile, insostituibile, unico. Qui torna Colette mentre nasce l'amore per un'altra donna mentre va via (?) Christine mentre altri sguardi s'incrociano mentre un mondo intero di amanti non fa altro che riprendere il giro su una giostra che vorremmo non avesse mai fine, presi dal vortice, dalla velocità, da un sentimento che incolla al muro e che ci fa volare – è quello che accade al giovanissimo Doinel de I quattrocento colpi quando, al Luna Park, entra in una macchina capace, grazie alla forza centrifuga, di incollarlo al muro e di farlo scivolare e volare lungo la parete.

Il cinema di Truffaut resta questa cosa qua: la costruzione di un mondo ricco di interrogativi, pieno di curiosità. Un cinema che è anche una casa, un cinema che fa venir voglia di fare cinema. Scriverne riesce sempre difficile. Certo, c'è questo desiderio, il tentativo di condividere un godimento, di partecipare a un piacere. Ma l'unica sponda possibile, l'unica eventualità vera, resta il fare, l'aderire a un'azione, a un movimento, a qualcosa che, squilibrandoci, facendoci cadere, ci ricordi, ancora una volta, che siamo vivi.

 

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