Festival dei diritti umani di Napoli – “Il sangue verde”, di Andrea Segre

il sangue verde
L’ultimo documentario di Segre è la conclusione, poco ideale e molto reale, di un viaggio sulle orme dell’immigrazione clandestina, iniziato con A Sud di Lampedusa e proseguito in Come un uomo sulla terra. Tre tappe di un percorso umano drammatico e lacerante, di un’odissea imperfetta, perché senza più nóstos. Ma anche tre momenti di una dinamica contraddittoria e irreversibile che segna la contemporaneità, il nostro modo di vivere e di vedere
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il sangue verdeNon si può certo dire che Andrea Segre lasci le cose a metà. Il suo ultimo documentario, Il sangue verde, è la conclusione, poco ideale e molto reale, di un viaggio sulle orme dell’immigrazione clandestina, iniziato con A Sud di Lampedusa e proseguito in Come un uomo sulla terra. Dal deserto del Teneré, in Niger, sino alle campagne della Calabria e oltre, passando per l’allucinante frontiera libica. Tre tappe di un percorso umano drammatico e lacerante, di un’odissea imperfetta, perché senza più nóstos. Ma anche tre momenti di una dinamica contraddittoria e irreversibile che segna la contemporaneità, il nostro modo di vivere e di vedere. In questo senso, la traiettoria trifasica di Segre non è solo il documento di un itinerario reale, storico e sociologico, ma è anche, per forza di cose, un’indagine sui cambiamenti che tale realtà impone all’immaginario e al sentire comune. Sono partito da una mia curiosità, spiega Segre nelle note di regia. Voglio capire cosa vive nel suo cuore, nella sua anima, nella sua intelligenza una persona che capisce l’ingiustizia della propria esistenza, ma non può far altro che cercare di sopravviverne. Ecco, il tentativo di comprensione è già il primo atto di un riposizionamento, la ricerca di un assorbimento. Un diverso modo di immaginare.   
Il sangue verde, già presentato alle Giornate degli Autori a Venezia, guarda ai drammatici fatti della rivolta di Rosarno del gennaio del 2010, quando i braccianti impegnati nella sfiancante raccolta delle arance, clandestini sottopagati, hanno esploso tutta la loro rabbia contro le inique condizioni di vita e di lavoro e contro il razzismo aggressivo delle istituzioni, dei cittadini, delle malavita. A parlare, a raccontare quell’esperienza sono gli stessi ‘protagonisti’: sette ragazzi provenienti dalla Costa d’Avorio, dal Congo, dal Ghana, dal Burkina Faso, dal Senegal. Sette vite piegate dalle privazioni, dalla paura, dal mal di schiena, eppur ancora magnificamente dignitose nel rivendicare il loro diritto alla fortuna, al presente e al futuro. Al pari di chiunque. Abbiamo tutti il sangue rosso, afferma uno di loro, nessuno ha il sangue verde. Ma questa constatazione naturale, che dovrebbe rappresentare un punto di partenza, assomiglia troppo a un disperato punto d’arrivo. Ed è proprio la consapevolezza di tale contraddizione a costituire la sostanza morale de Il sangue verde e il nucleo emotivo delle sue tante storie. Nelle parole dei protagonisti c’è una presa d’atto pacifica, quasi rassegnata, che va ben oltre una recriminazione sterile, qualsiasi atto d’accusa cieco e rabbioso. Ed è proprio per questo che emergono in controluce i meccanismi perversi di un’economia inquinata dalle infiltrazioni della malavita organizzata. Un’economia che, in linea generale, ha un dannato bisogno dei clandestini, ma non può e non vuole darlo a vedere. E si fa scudo della connivenza dell’apparato istituzionale e dell’odio strisciante della popolazione, che si sente espropriata del proprio ambiente e orizzonte di vita. L’immigrato è schiavo, o meglio oggetto, strumento funzionale al sistema, ma assolutamente spersonalizzato e intercambiabile. Segre lascia dire i suoi ragazzi, senza commentare. Al massimo concede un po’ di musica, qualche immagine contemplativa, un leggero sfogo malinconico. E aggiunge i racconti di Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno, impegnato per anni nella lotta contro gli interessi criminali, che ricostruisce in brevi tratti le trasformazioni e le degenerazioni del lavoro agricolo lungo i decenni. Ci sono le immagini di repertorio: le facce dei contadini anni ’60, arse dal sole, i piedi nudi, la fatica e la fame. E, come controcanto, lo spettacolo della politica che lancia proclami, fa prese di posizione, ma si ferma alla superficie. Il cuore, le gambe, i polmoni del paese, si ritrovano uniti a tutt’altro volto, a una faccia(ta) istituzionale che non c’entra nulla. Il cinema inquadra alla perfezione il mostro in cui viviamo. E questo già basta.  
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