Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina 18 – Retrospettiva Ousmane Sembène

Sembène ha rappresentato per il cinema africano uno dei padri fondatori, un autore che ha permesso di fare riconoscere il tratto più autonomamente politico del cinema africano. Scomparso nel 2007 Sembène ci ha lasciato un’eredità cinematografica che resta radicata nella mente e nella storia del cinema del Continente nero. Milano 2008 gli ha dedicato una retrospettiva completa che ha finalmente permesso di valutare e riflettere a pieno sul valore complessivo dell’opera del maestro senegalese.

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Sono un griot perché in una storia si possono far passare delle cose precisando al tempo stesso che il cinema è una rappresentazione della realtà.

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Ousmane Sembène

 

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SembeneOusmane Sembène era nato in Senegal nel 1923. Giovanissimo, a soli 21 anni, si arruola nel corpo dei fucilieri senegalesi e qualche anno dopo si imbarca per la Francia dove comincia scrivere. A Mosca frequenta la scuola di cinema e nel 1963 debutta con il cortometraggio Borom Sarret.

Sembène ha rappresentato per il cinema africano uno dei padri fondatori, un autore che ha permesso di fare riconoscere il tratto più autonomamente politico del cinema africano. Avversario di quella negritidine frutto del pensiero anticolonialista, ma limitante rispetto alla sua visione globale delle problematiche. In questo senso per tutta la sua vita artistica orgoglioso della sua origine, ha fatto conoscere gli aspetti più segretamente sovversivi e che più profondamente hanno favorito il processo di marginalizzazione post-coloniale, sia del Senegal che dell’Africa più in generale, all’intero mondo cinematografico. Milano 2008 gli ha dedicato una retrospettiva completa che ha finalmente permesso di valutare e riflettere a pieno sul valore complessivo dell’opera del maestro senegalese.

Fin dagli esordi Sembène ha sottolineato, nelle sue storie, fortemente rappresentative della realtà senegalese che, per le caratteristiche e le situazioni, possono estendersi al resto della cosiddetta Africa nera, le differenze sociali che si sono determinate in Africa quale terreno di conquista. Questi i suoi temi che hanno, nel prosieguo, continuato a caratterizzare il suo lavoro artistico e forse per Sembène, come per molti altri autori, ha un significato sostenere che durante tutta la sua carriera abbia sempre realizzato lo stesso film.

Il suo esordio nel 1963 con un cortometraggio esemplare, sottilmente ironico eppure così dolorosamente desolante. Borom Sarret racconta di un carrettiere poverissimo che dopo una giornata passata a trasportare varie persone che rappresentano i vari volti dell’Africa, viene assoldato da un benestante signore per un trasloco. Il trasporto deve avvenire nella parte nuova della città dove i carretti sono vietati. Finirà non pagato dal suo committente, gli verrà sequestrato il carretto e tornerà a casa più povero che mai.

Non c’è autocommiserazione, né in questo film, né in quelli successivi. Sembène, attraverso la sua arte ha sempre ricercato l’anima africana e facendo leva su quella, senza l’enfasi del predicatore, ma con la lenta pazienza di un artigiano ha continuato a verificare la possibilità di ricostruire un comune sentire, all’interno della larga comunità africana, che risollevasse le sorti sociali, ma soprattutto umane della sua gente dopo il dramma dell’esperienza coloniale. Questa fase politica che oggi prosegue sotto forme economiche, con i riflessi che condizionano la politica, ha segnato i tempi della sua carriera cinematografica.Le noir de...

Sembène dopo questa prima elaborazione artistica ha voluto ricercare nel dolore dell’emigrazione e nel forte senso di legame con la propria terra, il senso di una vita. In Le noir de… tratto da un suo romanzo (per chi fosse interessato in Italia edito da Sellerio) racconta la storia di una giovane donna africana che va a servizio presso una famiglia di Antibes. La luce e la vita agiata della Costa Azzurra non le possono bastare. Un sentimento di sempre maggiore solitudine la conquista lentamente, il disprezzo di cui è oggetto da parte della famiglia e soprattutto da parte della donna esponente di una rampante borghesia razzista, la profonda incomprensione della sua solitudine, la portano lentamente all’esito finale del suicidio.

Il film ha avuto una vita travagliata. In origine era nato come lungometraggio e al bianco e nero della storia contrapponeva lunghe sequenze a colori che raccontavano i malinconici pensieri della protagonista, il film che ci resta è solo la parte in bianco e nero, dopo i drastici tagli imposti.

Questi due film per quanto ancora estremamente parziali nella filmografia dell’autore senegalese, dimostrano, senza mezzi termini, la sua inclinazione artistica e la sua forte determinazione verso i temi sociali. Sembène non avrebbe mai smesso di narrare, attraverso le sue opere il disagio e la povertà, ma avrebbe anche affrontato i temi connessi, quelli in ragione dei quali i primi si sono perpetuati. In questo senso il cinema di Sambène è pienamente politico, estremamente caratterizzato da una ostinata partecipazione ai drammi di quei popoli, in questo senso, appare sintomatica e programmatica questa sua dichiarazione: Quello che mi interessa è esporre i problemi del popolo al quale appartengo. Non cerco di fare del cinema per i miei piccoli compagni, per un circolo ristretto di iniziati,. Per me, il cinema è un mezzo di azione politica, ma tengo ad aggiungere che non voglio fare un cinema di dichiarazioni.

Di lì a poco il suo cinema avrebbe pienamente espresso queste caratteristiche, restando, come da intenti anche in esergo a questa riflessione, un cantastorie legato al racconto popolare, alla sua tradizione e alla sua sconosciuta storia, quella, cioè, altra rispetto a quella solitamente narrata dai colonizzatori. In questi ambiti di ricchezza espressiva si muove il cinema di Sembène che, fino all’ultimo non ha mai rinunciato a questi principi che volevano aprire un confronto con l’occidente, ma nel quale soffiava un forte spirito di liberazione culturale e politica.

Nel 1968 Sembènè realizza il suo primo lungometraggio accreditato. Mandabi (Il vaglia) è un originale soggetto che nasce dalla sua stessa penna. Ibrahim è un disoccupato che vive con le sue due mogli. Un giorno il nipote, che lavora in Europa, gli manda un vaglia, ma Ibrahim non può cambiarlo perché non ha un documento di identità. Per espressa dichiarazione del regista Mandabi è un film non solo sui piccoli soprusi di una burocrazia testardamente arroccata a difesa di una malintesa legalità, ma anche un film sulla nuova e crescente borghesia africana destinataria dei privilegi negati Moolaadealle classi sociali più marginali. Con Mandabi, interamente parlato in wolof, la lingua ufficiale del Senegal, che si presenta come una dolceamara commedia, Sembène esterna definitivamente la sua cultura e la sua natura marxista. Con incredibile anticipazione, infatti, azzera ogni ipotetico argomento riferibile alla subalternità politica dell’Africa e dei popoli, per affrontare, con non comune determinazione, la subalternità che gli stessi africani hanno creato al crescere delle classi sociali nate dal colonialismo o dal postcolonialismo. Non c’è più sudditanza tra popoli o tra bianchi e neri, ma solo rapporti di forza tra classi sociali. Questa esplicita visione del mondo, della società, non assumerà toni differenti e sfumature dissimili quando Sembène affronterà i temi della religione e della ribellione ad un sistema economico che vuole l’Africa e i suoi Paesi destinatari di una visione perennemente votata al sottosviluppo che si perpetua attraverso quella carità pelosa degli aiuti alimentari che, di fatto, impediscono il progredire delle singole economie e che anzi legittimano le forme più depauperanti del colonialismo politico o politico – economico.

Nel 1971 realizza Emitai, Dieu du tonnerre (Emitai, Dio del tuono) ambientato durante la seconda guerra mondiale in un villaggio della Casamance, regione del sud del Senegal. L’occupazione francese vuole imporre ai pochi abitanti rimasti dopo la partenza di tanti per la guerra, la consegna del riso da inviare alle truppe, ma la popolazione, soprattutto donne e anziani, si oppongono. La carneficina finale spegnerà ogni speranza per i poveri abitanti del villaggio. Sintetizzare la trama di questo film vuol dire sorvolare su aspetti primari dell’opera, molto più complessa e articolata di come lo scarno racconto potrebbe fare pensare. Elemento fortemente presente nel racconto è quello religioso. Non a caso, infatti il film fa riferimento a questo feticcio, Emitai, dio venerato dagli animisti del villaggio e al quale gli anziani si rivolgono per ottenere consigli. Non è trascurabile quest’aspetto religioso del film, Sembène, infatti, non minimizza la questione religiosa che in altri film, Guelwaar e Ceddo, diventerà cruciale e qui assurge a sfondo della storia. Nell’intervista che Guy Hannebelle riporta – con tutte le precisazioni attinenti al fatto che si tratta di un condensato di varie chiacchierate con l’autore senegalese, inserita nel volume La nascita del cinema in Africa curato, per i tipi della Lindau, da Alessandra Speciale, una delle direttrici del festival di Milano, con la collaborazione di Catherine Ruelle – Sembène sollecitato sulla questione religiosa, dichiara il proprio ateismo e, in piena ortodossia marxista, rifiuta qualsiasi ipotesi religiosa che definisce come oppio per i popoli. In Emitai, per sua stessa ammissione, la religione gioca un ruolo che spinge verso la rassegnazione, in piena aderenza, alle manifestazioni del pensiero dell’autore. Ma ciò non va a detrimento di un film che conserva, come tutto il suo cinema, quel senso subliminale di rivolta fatta di gesti pacati, opposizioni razionali e mai violente nel gesto, un segno che pare appartenere all’indole dei suoi protagonisti. In questa misurata, ma sedimentata, inarrestabile e costante rivolta, sta uno dei perimetri entro i quali va valutata la sua opera, ma per fugare ogni dubbio circa la variegata gamma di spunti che il cinema di Sembène contiene è opportuno proseguire nella disamina cronologica della sua filmografia.

Ceddo è un film del 1976 e Sembène ci trasporta nel tempo, siamo, infatti, alla fine del XVII secolo e i cristiani e i musulmani tentano di convertire, alle rispettive religioni, la popolazione dei Ceddo che pratica riti animisti. Tra i tanti meriti della manifestazione milanese vi è quello di avere recuperato questo film che appartiene a quella categoria dei film invisibili per il suo portato politico a causa del quale conseguì un giudizio negativo che pesò in modo determinante sulla sua diffusione. Questo film, infatti, fu bandito in Senegal e solo dodici anni mandatdopo il presidente Senghor ne autorizzo la visione in patria. Intimamente audace e simbolico, per un autore che dissemina le proprie immagini di frammenti visivi che rimandano alla cultura tradizionale dalla quale proviene, Ceddo raccoglie con forza la ricchezza di questa tradizione culturale e costituisce, in qualche misura, per i cinefili africani una possibile summa del cinema di Sembène e delle tradizioni culturali di quelle aree, proprio per la ricchezza dei temi e per la forza di un cinema in cui, una certa fissità riflessiva, quella piccola misura oltre la quale mantenere l’immagine sullo schermo, oltre, cioè, quel tempo necessario e sufficiente entro il quale, l’immagine stessa, determina la propria manifestazione piena, in questo film si fa nucleo di pulsioni evocative. Ceddo resta un film in cui le tensioni politiche, sorde e sotterranee, costituiscono il motore di quella volontà collettiva che rivendica l’affermazione del proprio tratto culturale. I Ceddo sono “gli uomini del rifiuto” definizione programmatica e simbolica che evidentemente Sembène, per le sue inclinazioni politiche, deve avere molto amato.

Come suoi altri film anche questo agisce all’interno di una struttura microcosmica. I villaggi dei film di Sembène, fino all’ultimo realizzato, costituiscono una globale condizione e misura sociale. Non per questo i suoi film guardano al particolare, la sua capacità, infatti, è sempre stata quella di guardare a questi mondi ristretti: il villaggio, la casa, la capanna, con l’occhio allargato su orizzonti ben più ampi, senza scadere, viceversa, nella didascalica conversione del villaggio come mondo. È quel tratto che Giuseppe Gariazzo, nel suo bel saggio all’interno del catalogo di presentazione della retrospettiva, chiama l’immagine espansa.

In altre parole il cinema di Sembène ha la capacità di scandagliare i luoghi della sua cultura conferendo loro, però, un valore e un significato che pur restando ancorato a quella cultura, a quelle condizioni, conservano la necessaria carica per valere incondizionatamente per ogni situazione in cui si manifesti l’oppressione e la colonizzazione sia essa politica, economica o, come in Ceddo, religiosa. Attraverso queste caratteristiche che potrebbero apparire di natura estremamente simbolica, ma tali non sono, l’opera di Sembène assume un valore globale, conservando l’originaria natura delle proprie radici e definendo quindi i termini di un cinema fortemente territoriale, ma nel contempo, estremamente fruibile anche al di fuori dell’apparente perimetro entro il quale gode di maggiore e immediata comprensibilità. Siamo ad un passo dalla piena globalità ed è stata questa la ricerca, probabilmente, più intensa nell’ultima fase del cinema del regista. Se infatti Ceddo annuncia questa aspirazione e tensione verso un più diffuso attecchimento dei principi di questo cinema, Camp de Thiaroye (1988) e Guelwaar (1992) portano questo processo ad uno stadio più avanzato.

Il primo dei due film ebbe grande successo a Venezia e a Montreal e nacque dalla collaborazione tra Sambène e Faty Sow, all’epoca giovane regista senegalese emergente, che scrissero la sceneggiatura e girarono il film ambientato durante la seconda guerra mondiale. Un contingente di fucilieri africani deve essere pagato per il servizio prestato a fianco dei francesi, questi pensano di ingannare i soldati africani che, di stanza a Camp Thiaroye rapiscono a scopo di ricatto il generale. I francesi promettono ciò che non hanno intenzione di mantenere e dopo una notte di festa dei fucilieri africani, per lo sperato raggiunto obiettivo, i francesi circondano il campo e massacrano i soldati. Ma il giorno dopo un altro contingente di soldati africani sarà faat kinepronto a imbarcarsi per la guerra. Il racconto di Sembène e Sow è fortemente metaforico e per loro stessa ammissione – a tale proposito va recuperata l’intervista che i due registi hanno rilasciato in occasione del Festival di Venezia 1989 in Cineforum n. 287, a cura di Alberto Artese e Leonardo Gandini – la sua efficacia narrativa non resta limitata all’episodio, “…In effetti, afferma Sow, il film non racconta una storia senegalese, ma una storia dell’Africa” (int. cit.). La prospettiva produttiva conferma, sotto questo apparente inusuale profilo, il tentativo di globalizzare il lavoro, infatti tre stati africani produssero direttamente il film e altri otto, a diverso titolo, furono coinvolti nella sua realizzazione. Tutto ciò è sintomatico di una volontà il più possibile onnicomprensiva da realizzarsi attraverso il cinema in ogni sua forma, anche quella produttiva. Come è bene intuibile, il film, servì a fare conoscere ai più, a mezzo dei canali approntati dai festival, il cinema di Sembène in occidente. Pochi, infatti, erano fino ad allora non tanto i conoscitori, quanto chi avesse avuto occasione di avvicinarsi al cinema di questo regista e, più latamente a quello africano, sebbene, in Italia il Festival di Verona che insieme a questo di Milano rappresenta la più ricca manifestazione che riguarda il cinema di questo continente, avesse aperto i battenti nel 1981.

Il film successivo di Sembène non ebbe la stessa sorte. Guelwaar è stato prodotto nel 1992 e chiude un ciclo, forse un’epoca nella vita del regista, ma in generale è sintomatico, anch’esso, della chiusura di un periodo politico della storia politica occidentale.

Guelwaar è un leader della comunità per meriti acquisiti, per la sua attività politica. Guelwaar è di religione cristiana e quando muore le sue spoglie per errore sono state seppellite nel cimitero musulmano. Le due comunità si affrontano e il corpo di Guelwaar rischia di diventare la causa di uno scontro che potrebbe diventare sanguinoso. Per fortuna tutto si ricompone, ma nulla è avvenuto invano. Con Guelwaar ultimo e radicale film politico, affronta con decisione la tematica religiosa, ponendo i termini della contraddizione che esiste tra liberazione e religione in una visione di insanabile contrapposizione. Fin quando la religione occuperà la quotidianità (e in Guelwaar la visione del quotidiano è totalizzante) non potrà esserci spazio per la liberazione dei popoli africani. Nel film la figura del protagonista emerge poco alla volta, per progressivi flash back che illuminano lo spettatore sulla reale consistenza della sua figura di leader. Guelwaar è un anticolonialista, un capo che durante i festeggiamenti per gli aiuti alimentari giunti a destinazione, avverte i suoi dei rischi che una tale accondiscendenza comporta, invitandoli a rifiutare gli aiuti per non restare soggiogati nella trappola che questo assistenzialismo implica. Tutto ciò nonostante le sue debolezze – divertente e ironicamente ad effetto la sequenza in cui si scopre la sua clandestina relazione con una moolaadedonna del villaggio – a testimonianza di una quotidianità non didascalica, ma inusuale e gustosamente ironica. Con Guelwaar Sembène però, ricompone il proprio stile e alla frammentarietà apparentemente dispersiva del racconto, tipico dei suoi film precedenti, contrappone una narrazione a mosaico, ma di stampo più vicino a quello occidentale, che ritroviamo in innumerevoli opere del nostro cinema. Sarebbe qui interessante entrare in questo spazio testuale e guardare con attenzione alla forma narrativa approntata da Sembène che all’ideale centro del testo del racconto a noi più vicino, contrappone spesso un racconto policentrico che, in qualche caso (Emitai tra questi) porta all’eliminazione di un protagonista, ma riconosce nelle piste narrative sovrapposte all’interno del film, altri e diversi protagonisti.

Due film sulla donna chiudono la sua carriera artistica Faat Kine (2000) e Moolaade (2004) apparentati dall’idea di costruire attraverso questi e un terzo, mai ultimato, una trilogia che si chiama Heroisme Au Quotidien sullo stato sociale della donna in Africa. I due film delineano i profili dei personaggi femminili attraverso la loro forte determinazione e la loro carica di moderna visione delle cose. Collé Ardo e Faat Kine sono due donne che, in una realtà difficile, caratterizzata da pregiudizi e ritualità esclusive e in cui la propria marginalità sociale ha un peso negativo decisivo, decidono di sfidare tali pregiudizi e portare con decisione il peso di una battaglia in Faat Kine personale e in Mooolaade sociale, per quanto i due termini, per le implicazioni che hanno nelle storie, sono del tutto intercambiabili. Qui il cinema di Sembène si interiorizza, mantenendo ed estremizzando la natura microcosmica nella quale trova la sua misura scenica consolidata. In particolare in Moolaade lo spazio minimo del cortile e della capanna diventa teatro immaginario del mondo e delle sue implicazioni, un proscenio multiforme in cui trova strada la solidarietà per le bambine e per Collé Ardo che le difende. Vari premi hanno segnato l’uscita di questo film e quando il pubblico internazionale si è accorto della presenza di Sembène lui, nel giugno 2007 è uscito per sempre di scena, lasciando incompiuta la sua trilogia, ma lasciandoci un’eredità cinematografica che resta radicata nella mente e nella storia del cinema del Continente nero.

 

 

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