FESTIVAL DI ROMA 2010 – “Oranges and Sunshine”, di Jim Loach


Per il suo esordio Jim Loach sceglie temi vicini alla sensibilità paterna, ma la sua regia, se evita di riprodurre passivamente lo stile disadorno e nervoso cui ci ha abituato l’autore di My Name is Joe, fatica a trovare una propria cifra personale e incisiva, limitandosi a illustrare con tocco discreto quanto incolore una vicenda che avrebbe meritato ben altra grinta e passione.
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Oranges and SunshineAl di là di un’indubbia onestà d’intenti, quella che si nutre della sentita necessità di rendere nota al pubblico una vicenda oscura quanto deprecabile, è purtroppo difficile trovare qualità significative nell’esordio alla finzione di Jim Loach, quarantunenne figlio del grande Ken, già regista di un consistente numero di episodi in diverse serie tv inglesi. Sulla carta Oranges and Sunshine è materiale forte, potenzialmente in grado di toccare corde profonde, in termini di turbamento e indignazione. Si tratta infatti della storia vera di un’assistente sociale, Margaret Humphreys, che alla fine degli anni Ottanta s’imbatté quasi per caso nelle confuse testimonianze di alcune persone inspiegabilmente allontanate dalle proprie famiglie, e lentamente sollevò il velo su un gigantesco traffico di esseri umani che tra il 1930 e il 1970 riguardò quasi 130,000 individui, prelevati dagli orfanotrofi inglesi cui erano stati affidati e spediti a lavorare in Australia, sotto l’ala protettrice di istituti religiosi poco evangelici. Arroganza e brutalità delle istituzioni che impunemente spogliano d’identità e dignità i cittadini che dovrebbero proteggere, e gente comune pronta a battersi per dar voce a chi non ha difesa né possibilità di scelta: temi vicini alla sensibilità paterna, oltretutto affidati alla penna della sceneggiatrice di Ladybird Ladybird Rona Munro, ma la regia, se evita di riprodurre passivamente lo stile disadorno e nervoso cui ci ha abituato l’autore di My Name is Joe, fatica a trovare una propria cifra personale e incisiva, limitandosi a illustrare con tocco discreto quanto incolore una vicenda che avrebbe meritato ben altra grinta e passione. Allo stesso modo, convenzionale e schematica risulta l’analisi del percorso psicologico della protagonista, sintetizzato nella successione prevedibile di tre fasi classiche: febbrile spinta iniziale, crisi in seguito al sovraccarico emotivo dato dall’assorbimento del dolore altrui da un lato e dalle minacce ricevute dall’altro, riflessione e nuova e più consapevole determinazione. Emily Watson avrebbe tutte le carte in regola per far brillare di coraggio e passione civile questa figura di eroina silenziosa, e Hugo Weaving è convincente nel suo ruolo di ex bambino invecchiato, inconsapevolmente privato delle proprie origini, eppure neanche loro riescono a infondere vita a un’opera di denuncia politico-sociale che più che risvegliare le coscienze annoia lo sguardo, e in cui, quel che è peggio, si affaccia a tratti una retorica quasi ricattatoria che ne svilisce il senso e la forza.

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