FESTIVAL DI ROMA 2010 – "Pete Smalls is dead", di Alexandre Rockwell (Extra – Lezioni di cinema)

Alexandre Rockwell è uno dei più importanti esponenti di quel cinema indie newyorkese anni ‘80/’90 che è entrato in profonda crisi dopo l’avvento della generazione dei “Sundance Kids”, i giovani formatisi nella factory di Redford. E Pete Smalls is dead è un commovente e divertentissimo canto del cigno di un modo di fare cinema, spinto da un impeto cassavetesiano a inseguire sino all’ossessione l’emozione del personaggio e dell’attore che lo interpreta

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Alexandre Rockwell e Peter Dinklage, Pete Smalls is dead

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Un noto regista hollywoodiano di action movie, Pete Smalls (Tim Roth), improvvisamente muore. Il suo vecchio amico K.C. Monk –  regista di film indipendenti e in depressione per la morte della moglie – deve trovare 10.000 dollari per recuperare il suo amato cane tenuto in ostaggio da uno strozzino. Il terzo componente degli ex inseparabili amici, lo stralunato Jack Games, convince K.C. a mettere da parte gli antichi rancori e ad accorrere per l’ultima volta a salutare il vecchio compagno scomparso. Comincia così un ennesimo viaggio catartico verso il cambiamento.

Alexandre Rockwell è uno dei più importanti esponenti di quel cinema indie newyorkese anni ‘80/’90 (insieme ad autori come Jim Jarmush o Spike Lee) che è entrato in profonda crisi dopo l’avvento della generazione dei “Sundance Kids”, i giovani formatisi nella factory di Redford. Un cinema, quello di Rockwell, che si riscopre sempre più innamorato delle persone che inquadra, spinto da un impeto cassavetesiano a inseguire sino all’ossessione l’emozione del personaggio e dell’attore che lo interpreta. E Pete Smalls is dead è un commovente e divertentissimo canto del cigno di un modo di fare cinema, prodotto tra enormi difficoltà finanziarie, che si stemperano solo nel sorriso di Rockwell quando dichiara: “sono fiero di aver potuto fare un film veramente indipendente”. L’humus nel quale il regista/sceneggiatore fa nuotare i suoi protagonisti è per l’appunto quello dei “cinematografari” in continua ricerca di denaro per produrre il loro sempre rivoluzionario film (tematica già sviscerata nel precedente In the soup). Nel viaggio intrapreso da K.C. e Jack incontriamo personaggi esilaranti, come il duo di produttori squattrinati interpretati da uno scatenato Steve Buscemi e dalla maschera comica di Michael Lerner; improbabili maestri di vita come il Saco interpretato da Seymour Cassel (vecchia icona cassavetesiana); o ancora teneri sognatori che cercano un posto nel cinema che conta, come la giovane e imbrana montatrice Saskia. InPete Smalls is dead questo giardino di pura umanità svetta, in un’implosione continua di dolore represso, proprio la figura di K.C. – interpretato dal grandissimo attore nano Peter Dinklage – che traccia con una sincerità disarmante una vera e propria  mappa di sentimenti come dolore, amicizia o amore. Una mappa indelebilmente inscritta tra i solchi del suo volto scavato. Ed è proprio in questo che il film di Rockwell si trasforma in una malinconica operazione metacinematografica, dando appunto ai suoi personaggi tutto il tempo necessario per provare emozioni: straordinaria la scena del primo avvicinamento tra K.C. e Saskia, dove piccolissimi gesti e sorrisi – incastonati in primi e primissimi piani – riescono ancora a significare qualcosa. Un doloroso e divertito discorso sul passato quindi, intessuto da innumerevoli citazioni coltissime (da Fellini a Buster Keaton, da Jerry Lewis a Wim Wenders), che però miracolosamente sa parlare anche del nostro presente. Di un qui ed ora confuso e privo di coordinate, ma che riesce a ritrovare vigore solo dopo una coraggiosa apertura sentimentale. Apertura che, a suo modo, può diventare ancora un piccolo atto “rivoluzionario”: quello di K.C. che si ritrova innamorato di Saskia o quello di Alexandre Rockwell che si ritrova, nonostante tutto, innamorato del cinema.

 

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