FESTIVAL DI ROMA 2011 – "Dead Men Talking", di Robin Newell (Extra-L'altro cinema)


Robin Newell è evidentemente animato da uno spirito di denuncia di ciò che “scopre”, ma non ha la personalità registica per innalzare questa denuncia allo status di riflessione (filosofica o mediale). Limitandosi a mostrare (rispettacolarizzare) il triste destino dei condannati a morte cinesi. Materia complessa, idea interessante, ma occasione sprecata

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Uomini morti che parlano. I condannati a morte dal regime cinese che verranno giustiziati entro una settimana  – una donna che ha bruciato vivo il marito, un ragazzo che ha ucciso i genitori della sua fidanzata – sono intervistati in un programma televisivo seguitissimo (Interviews Without Execution)  condotto dalla giornalista Din Yu che concede loro le ultime parole pubbliche. Infine un documentarista occidentale che intervista l’intervistatrice creando questo Dead Men Talking. Ora, la stratificazione di input e il discorso sulla vita/morte come fatto strettamente mediale è sicuramente un dibattito attuale e urgente nella società del post-YouTube: Din Yu diventa una star e viene riconosciuta nelle strade o nelle carceri e si bea vistosamente della sua fama conquistata inseguendo la morte. Ma proprio tramite questa spettacolarizzazione (lacrime e urla dei familiari dei condannati comprese) questo programma televisivo fa inquietantemente passare in secondo piano l’evento primario della morte di queste persone. Le domande di Din Yu tendono sottilmente ad assecondare la condanna, a giustificarla e renderla sopportabile. La morte si nasconde nelle pieghe delle immagini e viene sublimata, dimenticata. Ed è in tale dubbio perturbante che questo documentario lascia interdetti: quanto è una denuncia di uno stato delle cose e quanto invece una ulteriore e non consapevole rispettacolarizzaione del dolore? Il dolore dei familiari viene inseguito con zoom e primi piani dalla dubbia etica registica e una riflessione a posteriori viene come troncata da una messa in scena supina al televisivo: il dubbio rimane immutato. Sia chiaro: Robin Newell è evidentemente animato da uno spirito di denuncia di ciò che “scopre”, ma non ha la personalità registica per innalzare questa denuncia allo status di riflessione (sia filosofica sia mediale). Limitandosi a mostrare – rispettacolarizzare appunto – ciò che incontra. Materia complessa, idea interessante, ma occasione sprecata.    

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