FESTIVAL DI ROMA 2013 – Out of the Furnace, di Scott Cooper (Concorso)


Fantastico come alla fine basti poco, i colori autunnali delle montagne del Jersey, i pick up che attraversano il villaggio di scrap and rubble mentre Eddie Vedder mugugna dalla radio, le ciminiere nere e fumanti sempre sullo sfondo della fotografia sgranata e calda di Masanobu Takayanagi, e i caratteristi di razza che all'istante ti sembrano facce che da quelle parti ci hanno sempre vissuto. Il sangue che scorre nelle vene di Scott Cooper è quello d'un fratello

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When I die I don’t want no part of heaven
I would not do heavens work well
I pray the devil comes and takes me
To stand in the fiery furnaces of hell

– Springsteen

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Scott Cooper si prende il suo tempo, e già così non fa che continuare a dimostrarsene fuori: in quale altro script contemporaneo può capitarvi di seguire la vicenda esistenziale di un protagonista che solo nel primo canonico atto attraversa già un numero così mostruoso di tumulti esistenziali e mutamenti di traiettorie e orizzonti? Siamo da subito dalle parti di un “altro” cinema, quello con ambizioni di infinita epica quotidiana, di gonfio romanzo di youngstown di periferia scalcinata dove le esistenze si affastellano tra le fabbriche, la strada, i bar malfamati e magari il carcere: Michael Cimino, certo, e Cooper mica se ne vergogna, dato che la parabola del personaggio di Bale ricalca con affettuosa attenzione quella del Cacciatore De Niro, e dunque anche al Russell di Out of the furnace viene dato di affrontare un cervo tra i boschi nel mirino del proprio fucile, e di essere attraversato dal dubbio della pietà.

Fantastico come alla fine basti poco, i colori autunnali delle montagne del Jersey, i pick up che attraversano il villaggio di scrap and rubble mentre Eddie Vedder mugugna dalla radio, le ciminiere nere e fumanti (Then smokestacks reachin’ like the arms of god Into a beautiful sky of soot and clay) sempre sullo sfondo della fotografia sgranata e calda di Masanobu Takayanagi, d.o.p. già bravissimo di Warrior e Il lato positivo, e i caratteristi di razza che all'istante ti sembrano facce che da quelle parti ci hanno sempre vissuto (Willem Dafoe, Forrest Whitaker, il grandissimo Tom Bower…).
Dati, di nuovo, i tempi disgraziati che viviamo, tutto ciò potrebbe sembrare addirittura sbilanciato a molti (verso cosa?), e siamo pronti a scommettere che si tratta degli stessi che probabilmente non colgono per quale motivo ad accompagnare la discesa all'inferno di Russell ci sia Sam Shepard. Pazienza.

Per tutti gli altri: Christian Bale si conferma corpo intriso di un classicismo fiero e dolente, qui alle prese con una figura mastodontica che lui e Cooper trattano allo stesso modo, tagliando cioé sempre al momento giusto (lo schermo nero dopo l'incidente, il sospiro magnifico del finale), mai un istante di troppo; e Woody Harrelson è una sorta di mostruosa ciminiera incarnata, letale metallo tossico e ribollente, oscuro e denso che avvelena l'America.
Per quelli ossessionati dal presente: il personaggio dell'impagabile Casey Affleck, l'attore tra tutti a cui Cooper chiede di più, se da una parte è un segno chiaro dell'oggi, veterano della guerra in Iraq che finisce a sbarcare il lunario nei sanguinosi match degli incontri di lotta clandestini (Well my daddy worked the furnaces Kept ‘em hotter than hell I come home from ‘Nam worked my way to scarfer A job that’d suit the devil as well), dall'altra è il frammento d'immaginario che in maniera più potente lega strettamente il film ai riferimenti del Padri fondatori della grande epopea americana al cinema.

Ci pare dunque chiaro ed emblematico. In maniera nettamente più potente e decisa in confronto al comunque fortunato esordio Crazy Heart, Scott Cooper si guadagna piena attenzione con Out of the furnace all'interno di questo piccolo movimento di nuovi cineasti che guardano alla tradizione iconica del passato una buona volta e per davvero non in maniera filiale quanto finalmente fraterna (Warrior, The fighter, non a caso tutte storie di fratelli…): una generazione di fratelli minori, cresciuta con l'ammirazione smisurata nei confronti dei primogeniti, ma anche con lo stesso sangue nelle vene.

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