Fuga da Alcatraz, di Don Siegel

Una pietra miliare del genere “carcerario”, quinta e ultima magistrale collaborazione tra il regista e Clint Eastwood e punto cruciale di riferimento per tutti i “prison movie” che verranno.

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Pietra miliare del genere “carcerario”, Fuga da Alcatraz è anche la quinta e ultima magistrale collaborazione tra Don Siegel e Clint Eastwood e punto cruciale di riferimento per tutti i “prison movie” che verranno girati in seguito.

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Ambientato nell’isola di Alcatraz, proprio all’interno della prigione mito che era stata chiusa nel 1963 per diventare attrazione turistica, il film si avvale di due punti di forza: in primis la regia rigorosa e geometrica di un Don Siegel in stato di grazia, con una attenzione al particolare e una ricostruzione realistica che rendono immediato il coinvolgimento dello spettatore (per la illuminazione e riadattamento della prigione vennero spesi ben 500.000 dollari); poi, l’interpretazione trattenuta e falsamente remissiva di Clint Eastwood, perfetto nel disegnare il progetto di fuga di Frank Morris alle prese con ostacoli logistici e barriere umane, ma caparbio nell’inseguire a tutti i costi questo concetto filosofico: se una cosa è possibile, essa diventa reale. Evadere da Alcatraz non è impossibile, un QI sopra la media e una grande forza di volontà possono portare la luce tra le tenebre di un microcosmo malato.

Le prime scene sono avvolte in un’atmosfera cupa: l’arrivo di Frank Morris ad Alcatraz avviene di notte, sotto la pioggia battente, al ritmo di una marcetta extradiegetica tra il funebre e il militare. I fulmini illuminano a giorno le grate della cella, inizia il calvario di Frank nudo come un verme, spogliato di ogni dignità ed esaminato come una cavia.

Il direttore (un perfido Patrick McGoohan) mette subito in chiaro le leggi che governano un carcere di massima sicurezza: detenuti in celle singole in isolamento, sono pochi i fortunati possono lavorare, chi sgarra finisce al buio e al freddo nel famigerato Blocco D, impossibile tentare la fuga nelle acque fredde e infide della baia di San Francisco.

Don Siegel sviluppa con maestria la caratterizzazione di personaggi secondari indimenticabili: il bibliotecario English che insegna a Frank come salire i gradini della scala sociale carceraria, il pittore Doc che nasconde nei suoi quadri le immagini di libertà e in un fiore l’essenza della propria anima, l’italoamericano Tornasole che addestra un topolino nutrendolo a spaghetti, i due fratelli Anglin preziosi complici nella fuga, il timido Charley Puzo che rivela la sua sofferenza nell’incontro con la fidanzata attraverso il vetro della sala colloqui, il bestione Wolf che vorrebbe fare la conoscenza “biblica” di Frankie.

Don Siegel muove la macchina da presa privilegiando l’aspetto antropologico e disegnando un quadro fedele del tessuto sociale americano, la differenza tra classi, l’istinto di sopravvivenza di fronte a un sistema oppressivo-repressivo. Attraverso questa interpretazione del reale Siegel propone, accanto al leader Clint Eastwood, una polifonia attoriale atta a creare un tessuto tematico intriso di paratesti e di contraddizioni sempre presente nella sua ricca ed eclettica filmografia (su tutti Rivolta al blocco 11, Il pistolero, L’invasione degli ultracorpi, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo). Fuga da Alcatraz diventa capo d’opera che ingloba contemporaneamente istanze reazionarie e rivoluzionarie prediligendo l’azione pura alla meditazione (Michael Mann e William Friedkin hanno con Don Siegel più di un debito). Per questa operazione il regista di Chicago si affida alla consueta abilità al montaggio, creando un esponenziale effetto suspense nelle scene in cui Frankie prepara gli strumenti della fuga sotto il naso dei secondini. A questo si aggiunga la forte contrapposizione caratteriale modulata attraverso i fatti più che con le parole: di fronte al direttore aguzzino che pone in atto movimenti soppressivi che tendono a cancellare l’identità di ogni singolo individuo, Siegel contrappone l’anti-eroe Frank Morris che spezza le catene del pregiudizio e della violenza psicologica lasciando ai carnefici la reliquia della sua condizione di ex schiavo, una testa di pupazzo di cartapesta. Rispetto alle interiorizzazioni psicoanalitiche di opere come L’uomo di Alcatraz (1964) di John Frankenheimer  o alle ipertrofie estetiche modello Fuga di mezzanotte (1978) di Alan Parker, Don Siegel predilige una sceneggiatura di ferro (scritta da Richard Tuggle basandosi sul libro di J. Campbell Bruce) in cui ogni tassello combacia perfettamente fino a sfociare nel grande mare delle possibilità: non sapremo mai se i tre fuggiaschi sono annegati o sono arrivati a San Francisco, i cadaveri non saranno mai trovati, rimane un crisantemo a testimoniare un’ assenza fantasmatica che pesa più di una presenza contingente. Frank Morris ha dimostrato il suo teorema: se una cosa è possibile essa diventa reale.

Titolo originale: Escape from Alcatraz
Regia: Don Siegel
Interpreti: Clint Eastwood, Patrick McGoohan, Larry Hankin, Fred Ward, Jack Thibeau
Durata: 112′
Origine: USA, 1979
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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