FILM IN TV – Jade, di William Friedkin

jade

Tra i film generalmente meno apprezzati di Friedkin, Jade è in realtà un’opera funerea e pessimista, grazie alla quale il grande regista americano esplora i lati oscuri del genere. Il suo cuore sta nello scarto tra la scrittura e la messa in scena, utilizzando la macchina da presa come un bisturi in grado di squarciare la patina e la superficie. Venerdì 25 luglio, ore 00.40, Rai Movie.

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Presentato tra le polemiche al Festival di Venezia del 1995, Jade rimane ancora oggi uno dei film meno ricordati e stimati di William Friedkin. Frutto della collaborazione tra il grande regista americano e il discusso sceneggiatore Joe Eszterhas (Basic Instinct, Showgirls, Sliver), in un periodo in cui Hollywood guardava morbosamente al sottofilone erotico del thriller, è in realtà l’ennesimo grande tassello di un autore mai incline alle tendenze del momento, nonostante le apparenze. E proprio di queste apparenze il film ne è pieno fino al midollo: opera funerea e pessimista, Jade deve la generale incomprensione critica proprio allo scarto, abissale e lapalissiano, tra la scrittura e la messa in scena. Basterebbe la meravigliosa sequenza di apertura, un piano sequenza sinuoso e morbido attraverso le stanze della villa del miliardario ucciso, per capire quanto Friedkin sia perfettamente consapevole dei limiti strutturali di uno script lacunoso e derivativo, da lui più volte rimaneggiato in aperta discordanza con Eszterhas. Non gli interessa mettere in scena l’ennesima indagine poliziesca su una presunta dark lady, quanto piuttosto esplorare il lato oscuro non solamente di un mondo e di un’umanità, ma proprio del genere nel suo insieme.

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E allora il perno di tutto è davvero quella maschera su cui si sofferma la sua macchina da presa,  all’inizio: il sepolcro dal quale (ri)partire se davvero si vuole continuare a raccontare attraverso il cinema, attraverso i corpi e i volti. Come quello di Linda Fiorentino, bellissima e sensuale come non mai, traghettatrice di anime verso l’abisso del peccato e della perdizione; perché i personaggi di Jade sono tutti fantasmi, involucri di carne mossi solamente dagli istinti primordiali, sempre pronti a celare i frutti delle proprie malefatte dietro l’abbagliante patina lucente di un mondo dorato e ingannevole. Non è più tempo di celebrare il poliziesco classico degli anni Settanta nella sua forma più action e dinamica, se persino i luoghi comuni del genere vengono qui ridotti all’essenziale, proprio dal regista che più di chiunque altro li aveva spinti fino alle estreme conseguenze con Il braccio violento della legge e, soprattutto, il capolavoro Vivere e morire a Los Angeles. È il caso ovviamente del concetto di inseguimento, che in Jade viene depotenziato di tutta la propria dinamicità, frenato, ucciso: un MacGuffin che alla fine non porta a nulla, bloccato e inerme nelle strade affollatissime di Chinatown. La Bellezza e la Morte, quindi, avvinghiate in quello stesso rapporto che esiste tra la Forma e la Scrittura: Friedkin celebra il funerale di un cinema che non può esistere più, in un decennio – gli anni Novanta – che hanno visto l’Immagine trasformarsi e morire alla stregua di un mazzo di fotografie dal contenuto pornografico. Il suo occhio è il vero protagonista del film, consapevole come forse solamente The Black Dahlia di Brian De Palma, dieci anni più tardi; e la sua macchina da presa il bisturi attraverso il quale squarciare il velo della superficie.

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