Quella sporca ultima meta, di Robert Aldrich

Montaggio frenetico ansiogeno, ralenti improvvisi, split screen depalmiani. E Burt Reynolds regala una delle sue prove migliori.

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Robert Aldrich è stato sempre considerato un regista anarchico, operante dentro il sistema ma con larghi margini di variabilità, tra lo sperimentalismo di Un bacio e una pistola (1955) e l’irriverenza de I ragazzi del coro (1977).

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Il suo cinema è certo muscolare, virile, strabordante, ma anche espressione di una frizione tra il Singolo e il Potere, in un divario raramente colmabile con le sole parole e fonte di violenza distruttiva. Quella sporca ultima meta (1974) prende a pretesto la metafora sportiva proprio per sottolineare la universalità del microcosmo carcerario, con il direttore (un perfido Eddie Albert) e il capo delle guardie (un cattivissimo Ed Lauter) che impongono la loro violenza fisica e psicologica al campione di football americano Paul Crewe (Burt Reynolds), caduto in disgrazia tra partite vendute e relazioni sentimentali ai limiti del grottesco.

quella sporca ultima metaL’incipit del film richiama questo clima di decadenza tra trofei ormai impolverati dal tempo e un presente piccolo borghese davanti la televisione. Mentre la donna esige la prestazione sessuale, il nostro ex campione, stanco di vendere il suo corpo, prova una fuga impossibile dal sistema che lo ha etichettato e sfruttato. Naturalmente finisce in un altro tunnel, quello della prigione, fatto di violenze, di leggi non scritte e di diversi abusi di potere. Burt Reynolds è un po’ guascone, un po’ ribelle, ma sempre superficiale nelle sue manifestazioni. Distrugge una macchina, fa resistenza a pubblico ufficiale, si ubriaca, anche quando è imprigionato cerca di adattarsi alle regole del regime carceriario senza avere una lucida consapevolezza del proprio ruolo.

quella sporca ultima meta Il tono del film vorrebbe essere quello della commedia ed effettivamente certe situazioni, come quelle della segretaria con lo chignon ipertrofico o il balletto dei ragazzi “pon pon”, potrebbero confermare questa ipotesi. In realtà lo sviluppo narrativo e il richiamo al principio di azione-reazione porta Quella sporca ultima meta dalle parti del cinema classico americano, con gli eroi che trovano finalmente il loro momento di riscatto dopo una vita di sconfitte e compromessi. Aldrich rielabora il filone sportivo-carcerario (con più di un richiamo a Quella sporca dozzina (1967) soffermandosi a lungo sullo svolgimento della partita tra carcerieri e detenuti (47 minuti sui 121 complessivi): montaggio frenetico ansiogeno, rallenti improvvisi, split screen depalmiani. A distanza di tempo il film perde forse un po’ del suo vigore e della sua forza primordiale e lo stesso discorso dell’individuo schiacciato dal sistema di potere (così importante in tutto il Cinema di Aldrich) passa relativamente in secondo piano lasciando il passo alla ostentazione muscolare e agli scontri sul campo. In un film così orgogliosamente virile, le figure femminili risultano sbiadite: da un lato l’amante Melissa che vede respinte le proprie avances e tratta il nostro eroe da cretino (“come può essere uno così cretino da seguire due partite di football una dietro l’altra”), dall’altro la segretaria del penitenziario che baratta un filmino delle partite dei carcerieri con una prestazione sessuale. Insomma siamo piuttosto lontani dalla visione dell’universo femminile di altre opere di Aldrich come Foglie d’autunno (1956) o il capolavoro gotico Che fine ha fatto Baby Jane? (1962).

quella sporca ultima metaTra i debiti con il cinema classico americano c’è da citare un altro nome illustre, quello di John Ford: l’ultima inquadratura del film è un evidente omaggio al finale di Sentieri Selvaggi con il protagonista incorniciato in un gesto eroico che ne rivela il momento di lucidità, quella essenza di riscatto fuori dalla risata goliardica e dal cinismo disilluso.

Quella sporca ultima meta mette insieme due filoni di successo del cinema americano, quello penitenziario e quello sportivo muovendosi su un binario doppio, quello comico e quello drammatico. Bisogna scendere a compromessi con il potere per poterlo sovvertire? Chi sono i servi e chi sono i padroni? E’ necessario rispondere alla violenza con la violenza? Molti di questi quesiti rimangono insoluti. Burt Reynolds regala una delle sue migliori prove d’attore con una sorprendente versatilità e maturità. E quella sporca ultima meta è il passaggio obbligato dalla superficialità passiva alla profondità consapevole, capace di riscattare una vita.

 

Titolo originale: The Longest Yard
Regia: Robert Aldrich
Interpreti: Burt Reynolds, James Hampton, Ed Lauter, Eddie Albert, Bernadette Peters
Durata: 121′
Origine: USA, 1974
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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