FILM IN TV – Schindler’s List, di Steven Spielberg

schindler's list

A Spielberg, prima ancora che la Storia, la Gente, interessa l'individuo. L'Uomo come fine. Interessa capire il come e il perché di un passaggio di campo, di una scelta morale, di un dubbio doloroso, di uno slancio del cuore. Domenica 22 giugno, ore 12.20, Studio Universal

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È un film di bianco e di nero, Schindler’s List. Non c’è possibilità di confusione, di ambiguità. Del resto la Storia non è reversibile. Neppure dimenticabile. Nonostante i negazionisti provino a cancellarne le tracce e le ferite, a rimescolare le luci e le ombre, quasi con un trucco fotografico. Spielberg non ha bisogno di dimostrare ancora, giudicare ancora, condannare ancora. Per lui la differenza tra il bianco e nero è interamente sotto gli occhi, nei fatti, è scritta dall’assurdità di un male implacabile e dalla resistenza tenace della vita alla morte. L’unico che sembra muoversi ancora sul confine è proprio Schindler, il personaggio langhiano conteso tra la luce e l’ombra (quell’inquadratura con lui in cima alle scale…). Anzi, proprio per questo, proprio perché colto su una soglia, Schindler è l’unico vero personaggio del film, l’unico che si muove, che cambia, che compie un arco di trasformazione. Gli altri o appartengono alla dimensione dell’oscurità o a quella della luce, senza possibilità di redenzione o senza timore di condanna.

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schindler's listEcco. La grandezza del film sta proprio in questo. Nel rovesciare in qualche modo i termini della prospettiva. All’apparenza Spielberg, con la collaborazione di Steven Zaillian, ricostruisce la vicenda poco conosciuta di Schindler per regolare il suo debito con la tragedia della Storia e rendere omaggio alla sua gente. Il personaggio sembrerebbe un puro mezzo. Ma, a ben guardare, emerge sempre più il contrario. La Shoah, la deportazione, il rastrellamento del ghetto di Cracovia: tutto serve (con il dovuto rispetto) a raccontare il cambiamento di Schindler, questo passaggio dall’ombra alla luce, questa presa di coscienza e trasformazione. Una vera e propria crisi, che esploderà in quel magnifico pianto finale. È l’unico momento del film in cui si spinge sull’eccesso drammatico, e per questo il meno gradito ai critici austeri. Ma è un momento altamente necessario, che sembra quasi giustificare da solo tutto il percorso del film. Perché a Spielberg, prima ancora che la Storia, la Gente, interessa l’individuo. L’Uomo come fine. Interessa capire il come e il perché di un passaggio di campo, di una scelta morale, di un dubbio doloroso, di uno slancio del cuore. Del resto, per un regista sempre capace di dare una dimensione profondamente umana all’inumano, all’inanimato addirittura (il camion di Duel, lo squalo, l’alieno E.T. e su, su, fino ad arrivare al cavallo di War Horse), non deve essere stato tanto difficile capire quanto di inumano vi sia nell’uomo. E proprio questa percezione lucida dell’abominio deve aver reso ancor più straordinario ai suoi occhi un personaggio come Schindler, capace di riscoprire le ragioni di un’umanità residua. E chissà che non vi sia stata anche una sorta d’identificazione tra l’Autore (finalmente laureato) e il personaggio, storico o inventato fate voi. L’uomo di successo, coi soldi, di potere, l’artefice del mainstream che finalmente apre gli occhi.

schindler's listGià: aprire gli occhi… In fondo quello che rende Schindler’s List un pugno nello stomaco è proprio nel suo discorso sulla morale della prospettiva, del punto di vista. E allora, aldilà delle scene celebrate – la bambina col cappotto rosso, nota di colore ad alta valenza simbolica e drammatica, il bambino che si rifugia nella latrina del campo di concentramento, con il fascio di luce che lo colpisce dall’alto, altro squarcio che sorprende l’uomo impaurito tra la grazia del divino e il putridume del mondo – i momenti più eccezionali del film sono forse altri. Consistono in quei campi lunghi, in quel giorno tra soggettiva e sguardo oggettivo, che modifica il senso della percezione. Amon Goeth che dal suo balcone guarda gli ebrei cadere ad uno ad uno, come fossero birilli, sagome di un videogioco spara tutto. E Schindler che guarda dalla collina il rastrellamento del ghetto. La Storia si fa cinema e modifica il senso a seconda del punto di vista. Ed è questo diverso punto d’osservazione, questa differenza di lunghezza focale, di vie di fuga a distinguere gli uomini e no.

Schindler’s List è, di sicuro, il film della consacrazione istituzionale di Spielberg “autore”, finalmente accolto dall’Academy nell’Empireo della storia del cinema, per la serietà dell’argomento e la lucidità della ricostruzione. Ma non vale a cancellare il passato, a distinguere un prima o un dopo, uno Spielberg ludico e ammiccante, da uno impegnato e severo. Certo c’è una doppia linea, quella dell’invenzione fanciullesca e cinefila e quella, potremmo dire, storiografica, ossessionata dalla guerra e dall’orrore, dai “punti critici”. Ma non c’è differenza sostanzialmente dinanzi all’umanesimo profondo di Spielberg. Al punto che le due linee finiranno per toccarsi e combaciare nel miracolo incompreso di War Horse. Schindler, in fondo, è un uomo che apre gli occhi sull’alieno o un extra terrestre che guarda con gli occhi sgranati la nostra terra. È un altro soldato Ryan da salvare prima ancora che un salvatore. Il testimone, la vittima e l’eroe di un’eterna guerra dei mondi.

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