#Filmmaker2018 – Pierino, di Luca Ferri

Un mondo estraneo al mondo, un universo in cui sopravvivono regole e ritmi inusuali, un gioco perpetuo che del reale ripete solo il verso. Questa sera a Milano, Spazio Oberdan, h 21.15

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Avevamo lasciato Luca Ferri alle prese con la sua personale narrazione di una possibile Genesi che, consumata nel deserto di confine tra Marocco e Algeria, mutava in parte pelle al suo cinema inserendo una narratività tanto esile, quanto però efficace per un autore che, a guardare la sua filmografia, rifugge dalla narrazione quale elemento drammaturgico. Il suo racconto è solo la illimitata superfetazione di una circolarità dalla quale è impossibile sfuggire. Ferri è l’anomalia del cinema e anche il nuovo lavoro Pierino, quasi coevo a Dulcinea, conferma questa idea, che ormai è qualcosa di più che una sensazione.
Pierino Aceti è un pensionato bergamasco che nel corso di un anno intero, 52 settimane, 52 giovedì si incontra con Luca Ferri e, posizionato davanti alla macchina da presa, dopo la domanda “cosa hai fatto questa settimana?”, racconta la sua settimana fatta di colazioni, rasatura della barba il martedì e il giovedì, lettura dei giornali, spesa nei giorni di lunedì e venerdì, visite al cimitero, visite rare ai parenti, tutto con la scansione ossessiva del tempo e poi la sua passione, il cinema che frequenta assiduamente e per il quale tiene un diario dove appunta i giudizi sui film con un segno + per quelli che incontrano il suo gusto e un segno opposto per quelli che non trovano la sua approvazione. Il tempo trascorre con inesorabile lentezza in questa ovattata casa che protegge Pierino.
Il film è interamente girato utilizzando i vecchi VHS con un effetto anni ’80 molto marcato e una fotografia pastosa nata dalla collaborazione artistica con Samantha Angeloni. Il risultato è quello di una totale aderenza al profilo ambientale di questo personaggio, così ferriano e così distante da ogni ipotesi di contestualizzazione nei nostri tempi. Pierino, più che altro, sembra incarnare un pensiero, tanto demodé quanto, forse, utile per una umanizzazione delle relazioni e la partecipazione dello stesso regista alle fasi della messa in scena, apparente frutto di contrattempi e di errori non eliminati in fase di montaggio, costituisce, invece, la conferma di questa stretta relazione che quest’ultimo ha instaurato con Pierino Aceti. Un tocco di familiare complicità che nel rigido sistema teorico del regista bergamasco, rappresenta un omaggio con valore aggiunto.

Ferri sperimenta ancora una volta e lo fa azzerando nuovamente il racconto, poiché quello di Pierino non lo è. Con la sua operazione sembra avvolgere il film in una spirale che diventa una specie di vite/vita senza fine. Forse è in questa ripetizione/rielaborazione della quotidianità routinaria del protagonista che il film trova la sua forma compiuta, la singolarità rispetto a qualsiasi altro cinema, distinguendo i tratti e salvaguardando la sua natura assolutamente riflessiva e di ricerca personale.
Pierino conferma a chiare lettera quanto il cinema di Luca Ferri ci dice da tempo e cioè che non c’è nessuna supponenza autoriale in questa ricerca, nessun valore autentico da scoprire, nessun messaggio da lanciare e nessuna verità da rivelare. Il film, anche Pierino, serve a Ferri per misurare il grado di resistenza al mondo, il suo gradiente di pessimismo ormai cronicizzato, che ci va intravedere con la solita purezza dello sguardo deprivato da qualsiasi interesse che non sia quello di misurare il suo stato d’animo. Il cinema torna ad essere originario, come la sua Genesi in Ab ovo e offrire al pubblico, con un atto di rispetto, ma anche di orgoglio, la sua weltanschauung. Un cinema in altre parole che sintetizza un percorso attraverso strutture che appaiono inflessibili: i tempi, la circolarità insistita delle situazioni sulle quali si sviluppa il film e della quale può far parte la parola laddove viene usata come elemento fondante del testo. Anche Pierino non sfugge a queste precise coordinate e, nella ripetizione settimanale delle riprese, il racconto cronachistico della vita del suo protagonista si rinnova, ma sembra annullarsi in quella spirale vuota in cui Ferri spinge il suo film. Le note di regia insistono sul chirurgico e ossessivo rapporto con il tempo che diventa misura dell’immobilità dei personaggi. In questo senso insieme a Dulcinea e ad un film già in progetto, anche Pierino fa parte della trilogia domestica in cui tra le mura ospitali si consuma l’immobilità dei personaggi. Questi elementi, come precisa lo stesso regista, diventano un gabbia che costituisce al tempo stesso il limite dell’opera che però, a sua volta, è parte integrante del film.
Ancora una volta il regista bergamasco mostra un mondo estraneo al mondo, un universo in cui sopravvivono regole inusuali, ritmi estranei alla normalità, nonostante Pierino sia l’assoluta normalità, ma è la divertita ripetizione del suo ciclo quotidiano ad annullare, nella sua stessa celebrazione, ogni ritualità, a renderla vuota e vana, senza significato. Il cinema di Ferri sembra alimentarsi di questa lenta consumazione del reale, che ancora una volta si trasforma in disapplicazione di ogni senso rispetto a quelle verità che riteniamo conosciute. Ecco, diremmo che il cinema di Ferri è un dispositivo interpretativo al rovescio, in cui il senso delle cose va definito a contrario e nel quale sarebbe un grave errore ricercare forme veridiche del vero. Ferri inquadra sempre le forme anomale del credibile, traducendo la sua ricerca nella sfida continua verso forme espressive che si nutrano di una specie di ipotesi di realtà. In questa prospettiva il suo lavoro si adatta alla situazione che trova congeniale rispetto alla sua naturale creatività. È proprio per queste ragioni che, ad esempio, Pierino è girato con supporti del tutto estranei ad ogni iperbolica attualità tecnologica. Ferri adatta il supporto filmico ai VHS di cui è piena la casa di Pierino che vede il film sul videoregistratore.
Con la solita ironia sottile e quasi invisibile, l’autore, qui coadiuvato nell’operazione di scrittura da Stefano P. Testa, aggiunge musiche del tutto originali che integrano l’operazione sul passato. Si tratta di brevi jingle utilizzati nei supermarket americani negli anni settanta. Un familiare intermezzo che scandisce il tempo che sembra ritrovato nell’immagine quasi desueta del protagonista durante questo anno di riprese. Ferri ci accosta ad una specie di realtà immobile in cui il profili del vero si trasformano, con sottile operazione umoristica, in gioco perpetuo che del reale ripete solo il verso.

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