Finalmente Beloved, di Jonathan Demme

Sabato 1 dicembre “Fuori Orario” ci regala una prima TV straordinaria: l’ultimo e “invisibile” capolavoro di Jonathan Demme: nel consigliarvi la visione vi proponiamo la recensione che (non) pubblicammo nel n. 8 (mai uscito) di Sentieri selvaggi

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Immaginate un film che abbia tutta la sublime potenza, l’estasi pesante, la leggera disperazione, la forte e innaturale determinazione, l’arcaico e vorticoso potere di cui vibrava, ormai cinque anni fa, la sequenza di “Philadelphia” in cui Tom Hanks danza sulle note dell’Andrea Chénier. Ecco, “Beloved”, l’ultimo film di Jonathan Demme, è così: una sorta di dramma impalpabile, eppure concretissimo, in atto sulla insostenibile trasparenza dei sentimenti, il racconto ombroso e terrigno di un possesso e di un’appartenenza che si occupano reciprocamente (tema forte di tutto un certo Demme, del resto). Ma soprattutto la storia di una radicale liberazione, di un profondo e doloroso affrancamento da quello stato di intima, riflessiva cattività che è la schiavitù nella cultura afroamericana.
E’ questo, d’altronde, il motivo stesso del film di Jonathan Demme, tratto da quel capolavoro nel cuore della schiavitù che è Amatissima (Frassinelli), il romanzo Premio Pulitzer che Toni Morrison, insignita nel ’93 del Nobel per la Letteratura, ha dedicato “ai sessanta milioni o più” di schiavi morti prima ancora di arrivare in America. Come il romanzo dal quale è tratto, ma in una maniera se possibile anche più dura e invasiva, “Beloved” racconta infatti la “cattiveria” subita/agita che striscia sottopelle nel cuore di chi ha sopportato per generazioni la “cattività”, ritrova l’irrazionale paralisi nella rabbia e nel dolore di chi ha subìto le catene. E lo fa assurgendo a un livello di rappresentazione che prescinde da qualsiasi elaborazione metaforica, così come rifugge da ordigni ideologici di sorta, per calarsi corpo e cuore nella viva materia di quel dolore.

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Un po’ come ha fatto lo straordinario Spike Lee di “He Got Game”, Jonathan Demme con “Beloved” urla la sinfonia disarmonica dei sentimenti che urtano contro la propria ragione e racconta – e spiega! – lo status espropriato di ogni possibile conciliazione che appartiene alla condizione dei neri d’America. Certo – al di là dell’esser voluto, prodotto e interpretato da Oprah Winfrey, una delle donne più potenti della televisione americana, titolare di uno show seguitissimo – non stupisce che il film sia stato accolto così freddamente dalla stampa americana, tanta è la radicalità della sua posizione, tanto potente è la intima forza d’urto ideologica che mette in campo con una arcaica potenza da antica tragedia. Portandosi nell’Ohio del 1873, “Beloved” ci offre infatti una sorta di Medea nera e racconta la storia di uno spettro che abita, con amato e necessario terrore, i cuori di chi l’ha generato. Uno spirito che occupa una casa in ragione della furia, del rancore, della paura e della disperazione dei soli esseri che hanno sopportato di continuare ad abitarla perché ne sono la causa: Sethe, una schiava fuggiasca, e sua figlia Denver. Gli altri o sono morti o, come i due fratellini di Denver, sono fuggiti.
Al contrario del romanzo (che invece accenna all’accaduto in un delirio doloroso di schegge di ricordi sin nelle prime pagine), il film non spiega subito tutto. Aspetta anzi la parte finale per raccontare, in un lancinante e rapsodico flashback, il tragico evento che ha originato tutto quel male: una vecchia e taciuta storia di schiavi in fuga che cercano di vivere semplicemente la loro vita, di “cacciatori di negri” che arrivano e portano paura, violenza, morte, fuoco, frustate, l’incubo di nuove catene per sottrarre i propri figli alle quali una madre sarebbe persino capace di ucciderli…
Di tutto questo Beloved, il film, non dice se non quando la tragedia di Sethe non è al suo culmine. Demme preferisce iniziare sulla furia che esplode nella casa, squarciando con agghiacciante normalità la piccola vita quotidiana della famigliola: i mobili rovesciati, le pentole che saltano per aria, il cane, sbattuto da una forza invisibile contro la parete, che giace a terra, guaendo, un occhio fuori dall’orbita, i due bambini di casa che mettono qualcosa in una sacca e scappano via, lasciando sole la madre e la sorellina. Un incipit potentissimo, quello scelto da Demme, arcaico e privo di ragione, agghiacciante perché sottratto al mistero, capace di introdurci direttamente nelle tenebre di un cuore che ha conosciuto il male e se n’è fatta una ragione. Il film è tutto in questo avanzare senza tregua nella rabbia di uno spirito che rivendica se stesso con voracità, sino a occupare fisicamente quella casa e chi la abita, germogliato una mattina nella palude, il corpo da giovinetta in gramaglie, lumache, api e insetti vari a farle da vibrante corte, il passo incerto che la conduce a casa, dormiente presenza trovata da Denver, Sethe e dal suo nuovo compagno Paul D (Danny Glover) come un nero fiore sbocciato sul mozzo tronco di un albero, alla gola ampie cicatrici di vecchie e profonde ferite, rantolante con rauchi vagiti il suo nome, prima di cadere addormentata per giorni e giorni: Beloved, “amatissima”, lo stesso nome che Sethe aveva scritto sulla pietra tombale della sua bambina morta tanti anni prima. Sethe la conosce ma non la riconosce, la accetta in casa mentre è Denver a prendersi cura di lei, a farle ritrovare la parola, a riunirla in famiglia. Poi, via via, questo corpo di giovinetta sembra invadere davvero tutto, pretende attenzione, invoca amore, più di quanto sia possibile darle, esattamente come accade col cibo. Paul D va via, Sethe è prigioniera e precipita nella sua follia materna ritrovata, divorata da una presenza che è più forte di lei. Sino alla straordinaria sequenza finale, animata da una profondissima tribalità, nel rito di gruppo che esorcizza nella preghiera la casa, la donna, lo spirito…
Jonathan Demme descrive tutto questo con una incredibile capacità di stare nella verità della tragedia senza dimenticarne i simboli, ma senza innescarli mai sino in fondo. Beloved è un dramma dello spirito che divora se stesso, in cui questo regista bianco, che come pochissimi altri sa raccontare la natura più autentica della cultura americana (anche nella sua componente afro), ha rappresentato una volta di più una America che si scopre posseduta al suo stesso interno, cannibalizzata e mai digerita. Beloved è un corpo proliferante di luce, suoni, colori, spiritualità radicalmente afro, percorso dalla straordinaria fotografia del solitamente grande Tak Fujimoto (collaboratore di Demme in tutti i suoi migliori lavori), capace di rendere una germogliante vitalità nelle costanti tonalità terrigne e autunnali che il regista ha voluto imporre al suo film. Di fronte al quale resta – dignitosa interprete e coraggiosa produttrice – Oprah Winfrey, star extracinematografica che sorprendentemente non manovra il film ma lo lascia al comando del regista bianco nelle cui mani ha voluto metterlo.

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Regia: Jonathan Demme
Soggetto: dal romanzo omonimo di Toni Morrison (edito in Italia da Frassinelli)
Sceneggiatura: Akosua Busia, Richard LaGavanese, Adam Brooks
Fotografia: Tak Fujimoto
Montaggio: Carol Littleton, Andy Keir
Musica: Rachel Portman
Scenografia: Kristi Zea
Costumi: Colleen Atwood
Interpreti: Oprah Winfrey (Sethe), Danny Glover (Paul D), Kimberly Elise (Denver), Thandie Newton (Beloved), Beah Richards (Baby Suggs).
Produzione: Edward Saxton, Jonathan Demme, Gary Goetzman, Oprah Winfrey, Kate Forte per Harpo Inc., Clinca Estetico, Touchstone Pictures.
Distribuzione: Buena Vista International.
Origine: U.S.A. 1998
Durata: 172′.

Jonathan Demme nasce nel 1944 nello Stato di New York, a Rockville Centre, Long Island. Entra nel mondo del cinema lavorando nel settore pubblicità della United Artists. Assunto da Roger Corman alla New World, realizza i suoi primi film in linea con lo spirito della factory cormaniana. Il suo primo successo internazionale è Il segno degli Hannan, ma il suo nome s’impone definitivamente con Qualcosa di travolgente. Nel 1991 il serial-thriller Il silenzio degli innocenti gli vale l’Oscar per la migliore regia, ma anche il successivo Philadelphia conquista due statuette. Demme – che negli anni ’80 ha fondato l’associazione Filmakers United Against Apartheid – divide da sempre la sua attività di regista tra finzione, documentario (Mio cugino il reverendo Bob; Mandela) e film-concerto (Stop Making Sense sui Talking Heads e il recente Storefront Hitchcock su Robyn Hitchcock.

filmografia
1974 Femmine in gabbia (Caged Heat)
1975 Crazy Mama
1978 Fighting Mad (id.)
1977 Chroma Angel chiama Mandrake (Citizens Band/Handle With Care)
1979 Il segno degli Hannan (Last Embrace)
1980 Una volta ho incontrato un miliardario (Melvin and Howard)
1982 I commedianti (Who Am I This Time?)
1984 Tempo di swing (Swing Shift)
1984 Stop Making Sense (id.)
1986 Qualcosa di travolgente (Something Wild)
1987 Swimming to Cambodia (doc.)
1988 Una vedova allegra… ma non troppo (Married to the Mob)
1988 Haiti Dreams of Democracy (doc.)
1991 Mio cugino, il reverendo Bob (Cousin Bobby, doc.)
1991 Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs)
1993 Philadelphia (id.)
1993 One Foot on a Banana Peel, The Other Foot in the Grave (doc.)
1996 Mandela (doc.)
1997 Storefront Hitchcock (id.)
1998 Beloved (id.)

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