Fiore gemello, di Laura Luchetti

La regista è bravissima nel comporre e orchestrare le immagini. Proprio per questo dovrebbe lasciar andare l’appiglio troppo sicuro della sceneggiatura.

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Anna (Anastasyia Bogach)  e Basim (Kalill Kone) si incontrano e subito si scelgono. Lei scappa in quanto oggetto dell’ossessione di Manfredi, trafficante di immigrati, lui fugge dalla Costa d’Avorio alla ricerca di una vita migliore. Il nome della ragazza Basim lo legge sul suo zainetto sbiadito. Anna non parla più mentre lui, nonostante nessuno lo capisca, continua a chiedere e a scrutare incuriosito.

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Sullo sfondo c’è una Sardegna aspra da attraversare, priva di appigli e di rassicurazioni. Una regione  sempre vuota e desolata, dove si aggirano solo le ombre dei cattivi, ragazzi violenti o uomini-bestie da cui sfuggire. Ma lo sfondo in Fiore gemello, lo vediamo comunque poco, perché Laura Luchetti al suo secondo lungometraggio, predilige i primi e primissimi piani, sceglie le minuzie della natura circostante: le formiche, gli insetti sui fiori, lo scorrere di un rivolo d’acqua di un fiume che

non vediamo mai nella sua interezza. Agli ampi spazi aperti spesso è concessa la luce della notte (illuminata dalla fotografia di Ferran Paredes Rubio, fidato di Edoardo De Angelis) in cui intravediamo il mare e le valli saline. Nonostante questo il paesaggio non perde d’importanza, al contrario, ha il compito di respingere i protagonisti che lo attraversano, e la Luchetti è abile nel restituire l’inospitalità che veicola allo stesso tempo qualcosa di primordiale di cui non si può fare a meno. Proprio come in certi romanzi americani, vien da pensare a Mark Twain e ai suoi Viaggi di Huckleberry Finn, dove il paesaggio scorre sempre insieme ai personaggi, anche quando sembra scomparire.

Alla base c’è una scelta ben precisa, quella di stare addosso ai volti e ai corpi, riprenderli e assaporarli in ogni minimo dettaglio. Laura Luchetti ha le idee ben chiare per quel che riguarda la regia, è elegante nelle scelte e nei movimenti. La regista esalta la bellezza dei suoi protagonisti, li illumina mentre li scruta da vicino, sottolineandone la giovinezza e la morbidezza dei corpi, soffermandosi sui sorrisi che esplodono e sulla pelle di entrambi che nel contrasto è splendida a vedersi. Gli altri volti sono duri: quello di Manfredi (l’Aniello Arena di Reality) ispido come la sua barba ma anche quello del fioraio interpretato da Giorgio Colangeli, un buono fino a prova contraria ma comunque restituito attraverso il filtro degli occhi di Anna, sfiduciosa verso il genere umano con cui ha deciso di non comunicare più. Così con la sua descrizione in immagini, la Luchetti lascia intravedere il paesaggio, che attraverso i volti dei personaggi comunica tutto il suo peso. C’è però in questo buon film l’ombra di una paura che ritorna spesso nel cinema nostrano: quella di lasciare andare le redini della scrittura, come se si avesse timore di perdere l’appiglio sicuro della penna e delle tematiche “urgenti“, il sacro scheletro della sceneggiatura che non resiste alla tentazione di aprire troppe strade narrative che levano ossigeno alle belle inquadrature, spezzando il ritmo del film. Laura Luchetti sa come comporre e orchestrare le immagini, non resta che dar loro completa fiducia.

 

Regia: Laura Luchetti
Interpreti: Anastasyia Bogach, Kalill Kone, Aniello Arena, Mauro Addis, Fausto Verginelli, Alessandro Pani, Giorgio Colangeli
Distribuzione: Fandango
Durata: 95′
Origine: Italia 2018

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