Fotografando l'Italia: il cinema popolare di Salvatore Samperi

salvatore samperi

Il 4 marzo scorso Salvatore Samperi ci ha lasciato all'età 64 anni e con la sua scomparsa si chiude un altro capitolo del cinema italiano. Il regista padovano ha lavorato all’interno di una variegata gamma di generi cinematografici e con una propria originale impronta ha fatto del cinema un veicolo di scandaglio dei vizi e delle virtù in un’ideale geografia di un inguaribile Italia ammalata di provinciale e ipocrita morale. VIDEO

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salvatore samperiQuando, in piena rivolta studentesca del secolo passato, Salvatore Samperi fa il suo esordio sulla scena internazionale, correva l’anno 1968 e il Festival di Cannes costituiva un laboratorio di idee che avrebbero segnato la cultura europea degli anni avvenire. Grazie zia selezionato per il festival vide la proiezione annullata a causa della sospensione della manifestazione per le contestazioni dei registi della nouvelle vague. Tornato in Italia, con il suo film che non aveva avuto gli onori dello schermo di Cannes, Samperi avrebbe potuto vantare la partecipazione all’edizione più controversa del Festival. All’epoca l’autore aveva ventiquattro anni. Era nato a Padova, città turbolenta e ricca di contraddizioni, crocevia culturale di un Veneto dove hanno convissuto linee di pensiero estremiste e una profonda e radicata cultura cattolica. Salvatore Samperi appartiene alla buona borghesia e, come spesso accadeva in quegli anni, forma la propria cultura all’interno dei gruppi della sinistra partecipando al movimento studentesco e negli anni successivi sarebbe stato tra i settecento e passa firmatari dell’appello lanciato dal settimanale l’Espresso che chiedeva di fare luce sull’omicidio Pinelli.

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Il cinema di Samperi nasce da queste radici e trova la propria linfa in quella necessaria frattura che persegue nello spezzare la crosta della ipocrita morale che condizionava i rapporti sociali. Non stupisce quindi che il giovane regista si rivolga, quale proprio ideale maestro a Marco Bellocchio che, nel 1965, aveva girato I pugni in tasca, film decostruttivo e lancinante che azzerava il concetto di famiglia in una prospettiva quasi nichilista. Samperi con Grazie zia si pone su un piano differente, meno ruvido e rivolto a quello spazio familiare dove attecchiscono i tabù del sesso e le pulsioni erotiche. Per ricreare le atmosfere del suo maestro chiama sul set Lou Castel, costituendo, questa, una scelta precisa di continuità narrativa e politica. Lou Castel, svedese, non ha mai nascosto la sua appartenenza politica di comunista convinto. I temi dei rapporti familiari legati alle peccaminose fantasie giovanili condizionerà gran parte della produzione del regista padovano che, successivamente al suo esordio, girerà ancora Cuore di mamma (1969) e Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970). Con il primo vuole conciliare furore contestatario di stampo maoista nel tentativo di superare i canoni erotici eterosessuali; con il secondo, ironico e dal magniloquente titolo, ritornando più strettamente su avvelenati rapporti familiari, disegna una storia di sospetti e di interessi.

Nel 1971 con Aldo Lado scrive una storia il cui esito si inserisce perfettamente in quel filone di cinema popolare che in quegli anni arricchiva gli schermi italiani e all’interno del quale si mescolavano commedia, thriller, poliziesco e dramma. Un’anguilla da 300 milioni ci fa apprezzare le capacità di Lino Toffolo, confermando quelle di Mario Adorf. Ma nel cast ci sono anche Gabriele Ferzetti e una giovanissima Ottavia Piccolo. Dalla resistenza a Caorle  il passato ritorna sotto forma di cupo presente per una storia ricca di colpi di scena con al centro la giovane protagonista fulcro dell’intrigo con i trecento milioni da accaparrarsi. Ma il film non ottiene il successo che merita e nel 1972, ancora una trama in cui il denaro e il suo possesso costituiscono lo snodo della storia. Due diversissimi personaggi: un contrabbandiere e un vigile urbano difendono un gruzzolo di cui sono venuti in possesso in barba all’ipocrisia della provincia e alle sue maligne finalità. Ancora Lino Toffolo nel cast che, insieme a Paolo Villaggio, da vita a questo Beati i ricchi satira sulla borghesia di provincia sconfitta dalla bonomia degli umili. Il cinema popolare italiano di quegli anni  si preoccupava di fare breccia nella morale comune per mutarne l’atteggiamento. Una schiera di registi, tra i quali Samperi, hanno lavorato con questo scopo, un’altra nutrita schiera di attori e attrici hanno egregiamente coadiuvato questo lavoro. Ne nasceva un cinema imperfetto e frettoloso a volte, ma ricco di temi e ancora oggi valutabile, nella sua necessaria contestualizzazione, come evento di costume. D’altra parte, da sempre, è stato proprio il cinema di costume in Italia il genere ancora oggi più apprezzato. Samperi si è fatto interprete di questo cinema che guarda alla sua stessa derivazione sociale cogliendo vizi e virtù, peccati e assoluzioni. L’Italia cambia, ma restano cristallizzati pur nella loro mutevole valore i canoni di giudizio, in altre parole tutto avviene senza una vera capacità evolutiva. Samperi ha saputo guardare a questo peccato originale realizzando coerentemente un cinema popolare e immediato.

Samperi con Pino Caruso sul set di MaliziaNel 1973 è la volta di Malizia che ha avuto il merito di consacrare una scoperta: Laura Antonelli sogno erotico adolescenziale e proibito. Qui fa l’esordio Alessandro Momo sfortunato protagonista di pochi film, prima della sua tragica scomparsa. Malizia, con la fotografia di Storaro, inaugura un genere, supera i tabù sessuali riportandone l’oggetto alla dimensione del possibile,  materializzando esplicitamente le pulsioni già trattenute in Grazie zia del quale è diretto discendente. Nel 1974 Samperi incalza e stringe il cerchio attorno alla famiglia scoprendo la possibilità di osare di più. Se in Malizia era l’estranea avvenente cameriera a costituire l’oggetto del desiderio del giovane Nino, in Peccato veniale è la cognata, Laura Antonelli, a turbare le notti di Sandro (Momo). Nel cast anche Orazio Orlando. Una serie di drammatiche sventure avrebbero segnato le vite di questi tre attori e questo film diventa un crocevia per il ricordo del pubblico, ma anche per Samperi che qui ha raggiunto l’apice della notorietà.

Ancora una volta il regista padovano ha l’intelligenza e la capacità di cambiare rotta e movendosi sempre all’interno della dissacrante ironia trova come compagno di strada il conterraneo Bonvi (Franco Bonvicini), fumettista e disegnatore di fama. Utilizzando le sue divertenti strisce di Sturmtruppen realizza l’omonimo film (1976) che esce nello stesso anno di Scandalo che raccoglie, invece, un tiepido risultato, a differenza del film-cartoon. L’originalità della scelta, a metà degli anni ’70, e un’originale coppia di scrittori della sceneggiatura Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni nonché una coppia di collaudati guastatori della morale (Samperi e Bonvi) costituiscono la forza del progetto. La guerra e la stupidità dei suoi protagonisti stanno al centro del film interpretato da una schiera di attori per gran parte provenienti dalle esperienze della comicità milanese: Pozzetto, Cochi, Teocoli e Boldi con la conferma del redivivo Toffolo. Inevitabile una dose di macchiettismo che all’epoca ha fatto storcere il naso a gran parte della critica più convenzionalmente ancorata ad esiti necessariamente autoriali.

Samperi nel 1982 vuole ripetere l’impresa, ma Sturmtruppen 2 – Tutti al fronte è un flop. La sua dimensione solo barzellettisticalaura antonelli anticipa un filone ancora oggi praticato, ma non contiene la forza ironica del primo. Nel frattempo con Nenè, tratto da un romanzo di Cesare Lanza, racconta ancora una storia di amori familiari, di intrighi quotidiani legati alla giovanile scoperta del sesso per una riuscita ricostruzione d’ambienti in un film che si svolge negli anni quranta. Attorno a Nenè Samperi, raccoglie molti protagonisti già affermati o di futura fortuna della cultura popolare italiana. Musiche di Francesco Guccini e come comparse Ivano Fossati, Paolo Conte e Gianfranco Manfredi. Riesce a confermare questo suo tocco rievocativo, che qualcuno paragona, con i dovuti distinguo, a quello di Pupi Avati, anche con Liquirizia (1979). Una storia che si svolge alla fine degli anni ’50, tra le aspirazioni di una coscienza provinciale imitativa di modelli d’oltreoceano e i primi sentori di una contestazione in embrione. Scritto da Gianfranco Manfredi si chiude con l’arrabbiata canzone di Ricky Gianco.

È l’ultimo film che regala a Samperi una certa notorietà. Nel 1979 da un libro di Saba trasse Ernesto e ripercorrendo i propri passi realizzò Un amore in prima classe (1980), Casta e pura (1981) ancora con la Antonelli e Fotografando Patrizia (1984) con Monica Guerritore. Lavorò ancora e anche per la televisione. Per il cinema, tentando di ripetere il successo di Malizia girò Malizia 2000 del 1991 film dagli esiti drammatici anche da un punto di vista personale.

I suoi ultimi lavori, come accade sempre più spesso per registi come lui che hanno saputo metabolizzare un’originale autorialità coniugata all’efficacia espressiva popolare, sono televisivi Madame del 2004, L’onore e il rispetto e il Sangue e la rosa entrambi del 2006.

Il 4 marzo 2009 Salvatore Samperi a 64 anni ci ha lasciato e con la sua scomparsa si chiude un altro capitolo del cinema italiano che ha fatto del rifiuto dell’establishment un preciso e primario principio, che ha saputo far coesistere una spiccata propensione alla satira, all’interno di una variegata gamma di generi cinematografici e nel proseguire una strada già segnata dai suoi predecessori, ha continuato, con propria originale impronta, a fare del cinema un veicolo di scandaglio dei vizi e delle virtù in un’ideale geografia di un inguaribile Italia ammalata di provinciale e ipocrita morale.

 

 

 

  

  

 

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