Ghost in the Shell, di Rupert Sanders

Sorprendentemente politica e libera questa versione cinematografica dell’anime: spettacolo per lo sguardo e per i sensi orchestrato dall’immagine/corpo sempre più cibernetica di Scarlett Johansson

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A quando un serio studio monografico su Scarlett Johansson? L’attrice americana film dopo film sta costruendo una lucidissima poetica sul corpo digitale contemporaneo, sulla resistenza della (sua) immagine alla materia. Scarlett è davvero ormai una Monna Lisa Cyberpunk, come intuimmo in un numero di Sentieri Selvaggi Magazine di tre anni fa.
Eppure con Ghost in the Shell la sua icona si è davvero spinta oltre, in territori percettivi indefinibili: erotismo, fantascienza, saggio teorico, videogame, fumetto e, quasi per ultimo, cinema. In principio fu un clone nello sfortunato The Island di Michael Bay, per poi diventare l’ennesima eroina superumana di Luc Besson in Lucy, la pirotecnica Vedova Nera degli Avengers e infine l’alieno killer del cupo e seminale Under the Skin, di cui Ghost in the Shell sembra a tratti il corrispettivo pop.

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Arriviamo così a questo film di Rupert Sanders ispirato all’omonimo manga e anime giapponese del 1989, dove la Johansson interpreta il primo esemplare di cyborg con un cervello umano nel Giappone del XXI secolo. Non potrebbe essere altrimenti. Johansson è l’unico automa femminile possibile per riempire di desiderio questa nuova frontiera dell’immagine digitale. Siamo dalle parti di un nuovo corpo/mondo dalla consapevolezza sconvolgente (“immaginatevi quanto mi senta sola” confessa il personaggio quando le fanno notare che incarna l’umanità di domani).
Anche se i meriti di questa operazione hanno tante sfumature diverse. La Scarlett versione

ghost-in-the-kitano Motoko – ma nella squadra antiterrorismo in cui lavora la chiamano semplicemente Maggiore – è solo la punta di diamante di un cast illuminante e illuminato come non se ne vedevano da anni. Juliette Binoche (dott.ssa Ouelet) sembra dare seguito al ruolo di fantascienza che un giovane regista le offre nel finale di Sils Maria, in quella che diventa subito una continuità metacinematografica inaspettata e suggestiva. Takeshi Kitano è Daisuke Aramaki, il superiore di Motoko che parla solo giapponese. È l’anima classica e monumentale di un’etica che in un futuro postumano crede ancora nell’onore e nella giustizia, anche se questo significa stare dalla parte dei robot. E poi c’è lo straziante Michael Pitt, il rebel without a cause di Bertolucci e Van Sant che qui diventa l’antieroe tragico e anarchico contro una società distopica e omologata.

Insomma è un’opera sorprendentemente politica e libera questa versione cinematografica diretta dall’inglese Sanders e targata Dreamworks. E dire che sembrava destinata a non vedere mai la luce dal momento che Steven Spielberg ne acquistò i diritti almeno dieci anni fa. Uno spettacolo per lo sguardo e per i sensi – straordinario il lavoro sui cromatismi, sulle scenografie, sul suono e sulle musiche firmate dal grande Clint Mansell (in coabitazione con Lorne Balfe) – anche se molti fan dell’opera di riferimento potrebbero rimanere delusi per qualche imprecisione filologica, prima fra tutte la scelta di un’attrice occidentale per il ruolo di una giapponese. Eppure questo è un prodotto che fonde le architetture del futuro con tematiche attuali (il confine tra carne, anima e figura, il potere delle multinazionali, la resistenza come ultimo atto di civiltà, lo spionaggio informatico) e aggiunge traiettorie non banali sulla personificazione dell’androide. Un film ultratecnologico che riesce a mediare tecnica e cuore.
Oltre l’umano c’è… ancora l’umano!

Titolo originale: id.
Regia: Rupert Sanders
Interpreti: Scarlett Johansson, Michael Pitt, Michael Wincott, Takeshi Kitano, Pilou Asbæk, Christopher Obi, Joseph Naufahu, Juliette Binoche
Distribuzione: Universal
Durata: 120′
Origine: USA, 2017

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