#Giffoni2017 – Gabriele Salvatores racconta Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione

Il regista parla diffusamente del secondo capitolo de Il Ragazzo Invisibile ed affronta svariati argomenti sulle possibili declinazioni del cinema, tra realismo e onirismo. Il cinema rievoca fantasmi

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In attesa della masterclass pomeridiana e dell’incontro con i giovani giurati della 47 edizione della rassegna cinematografica giffonese in “Sala Truffaut”, al termine del quale il regista riceverà il Giffoni Experience Award 2017, Gabriele Salvatores, sessantasette anni il prossimo 30 luglio, si intrattiene a parlare con i giornalisti in compagnia del giovanissimo protagonista de Il Ragazzo Invisibile (2014), il sedicenne attore trevigiano Ludovico Girardello, che vestirà i panni di Michele anche nel secondo capitolo (LEGGI QUI l’incontro seguito da Sentieri Selvaggi in occasione dell’uscita del primo film). Il regista, napoletano di nascita e milanese di adozione, vincitore dell’Academy Award nel 1992 per Mediterraneo e autore di pellicole come Marrakech Express (1989), Turné (1990) – che con Mediterraneo (1991) vanno a comporre la cosiddetta “Trilogia della Fuga” – Puerto Escondido (1992), Sud (1993), Nirvana (1997), Denti (2000), Amnèsia (2001), Io Non ho Paura (2003), Quo Vadis, Baby? (2005) e Educazione Siberiana (2013), parla prevalentemente del nuovo film, Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione, le cui riprese sono cominciate nell’agosto 2016 a Trieste e la cui uscita nelle sale è prevista per gennaio 2018. Nel cast ritroviamo Valeria Golino nei panni della madre adottiva di Michele, Giovanna Silenzi, mentre Ksenija Alexandrovna Rappoport e Galatéa Bellugi interpretano rispettivamente Yelena e Natasha, madre naturale e sorella gemella del protagonista. La cornice di quello che un tempo si chiamava “Festival del Cinema per Ragazzi” si presta alla perfezione, d’altra parte, per approfondire le tematiche di una pellicola che ha come protagonista un adolescente che si scopre invisibile e che si muove all’interno di un contesto fantascientifico animato, tuttavia, da paure, illusioni, problematiche e speranze squisitamente reali e tipiche della prima giovinezza. Ma nel corso della chiacchierata il regista non manca di delineare la sua idea di cinema e di come essa si sia evoluta nel corso degli anni, accenna ai progetti futuri, cita Platone, Gramsci, Wenders e Derrida ed esprime il suo profondo disappunto per l’arenarsi di un esperimento che gli sta particolarmente a cuore.

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C_2_fotogallery_3081069_1_imageCome sarà Il Ragazzo Invisibile: Seconda Generazione dal punto di vista stilistico e sono previste operazioni multimediali collegate? Ci sono tutta una serie di iniziative parallele come per il primo episodio. C’è, ad esempio, una nuova graphic novel realizzata da Panini Comics. Ci sarà probabilmente un libro, un secondo capitolo sempre edito dai tipi della Salani ed altre iniziative da mettere a punto. Noi italiani facciamo delle cose bellissime, le esportiamo ma poi non le sappiamo vendere. Rendiamoci conto che i disegnatori della Panini Comics lavorano per la Marvel, purtroppo in Italia è più difficile! Per quanto riguarda, invece, le differenze rispetto al primo episodio, la più importante è semplicemente il fatto che il nostro protagonista è cresciuto e quindi ha passato quella che Conrad chiamava la linea d’ombra: ricordate, dei ragazzini stanno giocando in un prato sotto il sole, ad un certo punto la palla rotola oltre il prato e finisce in un bosco e uno di loro la va a recuperare e vede un ambiente completamente diverso, il buio, l’ombra, l’umidità del bosco, e percepisce degli strani rumori. Quando torna a giocare con gli altri ragazzini non è più lo stesso di prima: gioca al sole ma ha scoperto che c’è un’altra cosa. Ecco, questo succede anche a Michele che si dovrà portare dietro un grosso complesso di colpa e la scoperta di avere una sorellina quanto meno, diciamo così, infiammabile, oltre ad un aspro conflitto con due madri, una biologica e l’altra adottiva. Il secondo capitolo è un tantino più dark, ma senza perdere la gioia del racconto. Stilisticamente, mentre il primo film era più lineare come racconto anche perché si rivolgeva ad un pubblico più giovane, qui abbiamo provato ad abbandonare un po’ lo storytelling, il racconto della storia, per seguire maggiormente le emozioni. Non è che non raccontiamo la storia, anzi, succede di tutto nel film, però quello che succede lo vediamo attraverso i processi emotivi del ragazzo. Quindi trovo che il film abbia un andamento emotivo più forte del primo capitolo.

Un paio di domande sono per il giovanissimo Girardello. Cosa ti rimane di questa esperienza di lavoro, cominciata già con il successo del primo film, con un regista che ha dimostrato di sapere affrontare tematiche legate al mondo giovanile e come descriveresti il rapporto con il regista e la sua poetica cinematografica? “Inizio con il dire che Gabriele è stato il mio secondo regista, il mio primo regista è stato… mia sorella. Certo, non è proprio la stessa cosa, partire da mia sorella con uno spettacolino ed arrivare a Salvatores, pergif critica 2 non parlare poi della principale differenza tra i due: i capelli! Battute a parte, mi è rimasto sicuramente il divertimento di prendervi parte. Il primo film l’ho vissuto molto come un gioco, infatti avevo difficoltà a mandare a memoria le battute perché mi perdevo e mi distraevo dietro a tutte le dinamiche del set: le luci, i caffè, la pausa sigaretta, le persone, le telecamere. Mi ritrovavo rapito a fissare le persone e non riuscivo tanto a concentrarmi. Nel secondo film la cosa si è fatta più seria”. Quali sentimenti e vissuti emotivi hai ritrovato di te stesso nel secondo episodio? “Parlerei piuttosto di una mescolanza di sentimenti e di emozioni in cui mi sono ritrovato sia come Michele che come Ludovico, e mi riferisco sia ad emozioni che provo ogni giorno sia a sensazioni che avverto in determinate situazioni della mia vita. Parlo di quelle emozioni che potrebbero essere la rabbia, la stanchezza, la tristezza, la gioia. Ma, appunto, non sono da prendere singolarmente, scena per scena, ma nel loro complesso: una minestra di tutte queste emozioni”.

Nirvana è stato uno dei tuoi primi approcci al genere fantascientifico. Adesso con i due film de Il Ragazzo Invisibile stai tornando a questo tipo di racconto. Che cambiamento c’è stato da allora nel modo di lavorare e che tipo di maturazione c’è stata a livello di trama? Nirvana è di 20 anni fa. Quando il film uscì, nel 1996, il pubblico non sapeva che cosa fosse un virus elettronico, anzi, temevano di esserselo beccato al cinema. Non si conoscevano le potenzialità della rete e non c’era la tecnologia di adesso, quella tecnologia che nel film veniva mostrata. L’approccio alla fantascienza è una cosa che mi è sempre venuta naturale, ho sempre amato molto i racconti ed i fumetti di fantascienza, fin dalle mie prime esperienze a teatro. E poi ho sempre creduto una cosa: Antonio Gramsci, quindi non esattamente un sognatore pazzo ma un signore abbastanza concreto nelle analisi della realtà, diceva che per capire la realtà non basta la ragione. E lo penso davvero, in particolar modo oggi, in un periodo storico in cui la differenza e il confine tra finzione e realtà sono sempre più difficili da distinguere. Amo la possibilità di utilizzare un cinema che ti permetta anche di raccontare l’invisibile, ma non parlo solo dell’invisibilità come potere magico, parlo proprio di ciò che la televisione e la rete non possono farci vedere, non perché non ne abbiano i mezzi, ma perché quello che trasmettono rimane solo una fotografia, per quanto utilissima, della realtà. Il cinema ha il grande potere di far pensare che delle semplici ombre proiettate sul muro siano delle forme vere e siano esse stesse la realtà, per usare una celebre immagine metaforica di Platone. Questa è la grande magia del cinema. Il critico, filosofo e psicanalista francese Jacques Derrida diceva che il grande potere del cinema è rievocare fantasmi, il che non vuol dire catturare entità soprannaturali à la ghostbusters, ma tirare fuori da noi stessi qualcosa che abbiamo dentro e che non sapevamo di avere e che, passando all’improvviso in una sala buia, vediamo proiettato sullo schermo. Questo è molto nutriente per lo spirito. La sala cinematografica non morirà mai proprio per questo motivo”.

Salvatores_Ludovico_Giffoni-min-1024x683Con Nirvana e il primo capitolo de Il Ragazzo Invisibile hai anticipato di gran lunga i tempi della sperimentazione tecnica e delle modalità di racconto di Lo chiamavano Jeeg Robot: “Trovo che Lo Chiamavano Jeeg Robot sia un bellissimo film, mi ha divertito molto. Ma si tratta di due film molto diversi, lì c’è un approccio molto più fumettistico, da comics movie, che va proprio al cuore del supereroe, mentre Il Ragazzo Invisibile va in una direzione un po’ diversa, gioca con il genere dei supereroi ma racconta anche altre cose: né meglio né peggio, non è questo il punto, ma sono due film parenti, ma diversi. In ogni caso, da un punto di vista tecnico, credo che non ci sarebbero problemi a fare incontrare, diciamo così, questi due film. Abbiamo questa possibilità. Non è un problema tanto per i produttori, quanto per l’esercizio cinematografico che dovrebbe avere meno paura in questo senso. Se tu fai sempre la stessa cosa, il pubblico si stanca. La cosa importante, se vuoi rimanere interessante e visibile, è continuare a sperimentare. Sì, in fondo mi piacerebbe realizzare un crossover. Comunque, è cambiata radicalmente la tecnologia. Pensate che ne Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione ci sono quasi 700 interventi digitali e anche per questo motivo stiamo impiegando tantissimo tempo a realizzarlo, dovremmo finire ad ottobre e il film uscirà nelle sale nella prima metà di gennaio 2018. Abbiamo usato per la prima volta in Italia una tecnologia che permette di ricreare in 3D i personaggi, gli oggetti e la scenografia: nel film alcuni attori saranno veri, altri saranno una copia digitale. Non si tratta solo di un giochino tecnico, queste possibilità infinite cambieranno il modo di fare cinema, sperando, anzi lottando sempre affinché non si perda l’umanità delle persone, sia degli attori che dei registi. Vedete, gli effetti speciali sono come tanti colori che hai a disposizione sulla tua tavolozza, ma se non sai che disegno tracciare in bianco e nero, tutti questi colori non servono. Devi avere ben chiaro che disegno vuoi fare”.

Oltre alla consapevolezza di avere una sorella, con quali altri sentimenti dovrà fare i conti questo nostro supereroe esistenzialista ed intimista?Nel primo capitolo, che corrispondeva all’età che il personaggio aveva in quel momento, c’era la scoperta di essere invisibile e quindi si raccontava proprio questo, la scoperta di un superpotere. Tutti noi, penso, abbiamo provato l’esperienza di essere invisibili, di sentirci invisibili o perché nessuno ci filava o perché volevamo esserlo e non volevamo farci vedere dagli altri. Almeno a me è capitato tante volte. Nel secondo film la cosa si è fatta molto più complessa: c’è da raccontare il problema di come usare questo superpotere. Vedremo quindi una grande differenza ed un vero e proprio scontro tra quelli che vengono chiamati gli speciali ed i cosiddetti normali. Questa dinamica apre tutta una serie di riflessioni anche sul nostro quotidiano: ad esempio, abbiamo realizzato un concorso in varie scuole – concorso che è stato vinto da una scuola di Secondigliano e ciò mi ha reso particolarmente felice – chiedendo ai ragazzi di scrivere dei temi in cui immaginassero a modo loro il seguito de Il Ragazzo Invisibile. Ebbene, da questi temi sono venute fuori due paure particolarmente forti vissute dai ragazzi. La prima paura riguarda l’identità genetica e familiare, l’essere veramente figli della propria madre. Pensate, io da bambino non avevo questo tipo di problema. Invece, tantissimi ragazzini di oggi hanno espresso questo timore così particolare e hanno voluto vedere delle fotografie che li ritraevano da piccoli con la madre, chissà che su questa paura non incida il discorso sulle adozioni. La seconda paura più sentita è il terrorismo. Queste due tematiche le abbiamo inserite nel secondo capitolo e quindi si dibatte anche di questo. Vedrete che nel film c’è un confine che il nostro protagonista dovrà scegliere, diciamo pure stabilire tra il bene e il male: fino a che punto ti puoi spingere per rivendicare i tuoi diritti o quelli che pensi siano i tuoi diritti e quando devi fermarti e, soprattutto, dov’è il confine tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male. Tutto questo rende il secondo capitolo effettivamente più complicato ed intenso, diciamo.

iri_2_teaser_poster_x_reference_only_coming_soonFar vedere il cinema invisibile. All’interno di una produzione cinematografica il ruolo del regista è quello più determinante proprio per far uscire l’ideologia di quello che sarà il prodotto finale. Quali sono gli elementi utili per trasmettere questa ideologia?Credo che nel cinema puoi fare qualsiasi tipo di film e raccontare qualsiasi tipo di storia, ma non puoi raccontare bugie, devi essere sincero e prenderti la responsabilità di avere il tuo sguardo sulla realtà e di attenerti a quello, di esprimerlo e raccontarlo. Wim Wenders diceva che ogni macchina fotografica, ogni telecamera ha due obiettivi: uno va verso l’esterno e fotografa o riprende quello che c’è davanti; l’altro va verso l’interno di chi sta fotografando o riprendendo. Se non funzionano entrambi gli obiettivi, quello che si è ripreso o fotografato rimarrà solo una ripresa o una fotografia, non particolarmente interessante, della realtà. Se funzionano entrambi, allora quello che si è ripreso o fotografato diventa un’opera, diventa lo sguardo di quella persona sulla realtà. Ecco, è questo ciò che bisogna fare per portare avanti la propria idea. Bisogna prendersi la responsabilità di avere il proprio sguardo e di non seguire le mode. Parlavo di sincerità: quanti film fanno ridere di cose di cui abbiamo paura? Quante barzellette ci sono sulle donne, sui neri, sui carabinieri, sui luoghi comuni? Sono tutti modi per rimuovere ed esorcizzare delle paure, come dire, ci rido sopra e me ne dimentico. Ecco, questo il cinema non lo deve fare: può e deve far ridere, ma non per rimuovere una paura”.

A proposito di cinema della realtà, oggi pare esserci un’autentica ossessione per le storie vere. Anche nel vedere dei trailer su ciò che arriverà nelle sale nei prossimi mesi, si ravvisa questa necessità di ribadire continuamente che la pellicola è tratta da una storia vera, come se soltanto la realtà desse dignità ad una storia, come se soltanto quello che è reale fosse vero. Non ti sembra più coraggioso, invece, ricercare la realtà e la verità nella fantasia? Come mai, a tuo avviso, c’è questa tendenza esasperata?È una domanda cruciale. Non so se sia più o meno coraggioso, ma sicuramente scrivere all’inizio di un film tratto da una storia vera ti lega a tutto quello che è, per esempio, il mondo dei social network e al loro utilizzo. La forza di questi strumenti è proprio la presa diretta sulla realtà, ma questo lo fa già molto bene la televisione, quando è fatta bene – e ci sono degli esempi molto belli – lo fanno bene i documentari che diventano addirittura poetici se sono realizzati con qualità e lo fa bene anche il web. Quando i fratelli Lumière riprendevano l’uscita degli operai dallo stabilimento di Monplaisir nella periferia di Lione lo facevano solo per documentare e far vedere alla gente che non conosceva il mondo del lavoro com’erano le facce di quegli operai, di quelle persone. Ma adesso queste cose le conosciamo tutti, il cinema non ha più solo la funzione di una finestra sulla realtà. Personalmente – e qui naturalmente è una questione di gusti e di sensibilità personali – ritorno a quanto diceva Derrida e credo che la forza autentica del cinema sia quella di rievocare fantasmi, ma attenzione: non si tratta di fantasmi finti, ma delle nostre cose di tutti i giorni. C’è un autore contemporaneo, giovanissimo, che amo molto e che sicuramente conoscete: Xavier Dolan. Ecco, Dolan è molto bravo a fondere racconti reali con uno stile emotivo ed una capacità narrativa che vanno al di là del realismo. Quando si riesce a centrare questa cosa si materializza il cinema che mi piace. Qualche giorno fa ho visto The War – Il Pianeta delle Scimmie e mi è piaciuto moltissimo, l’ho trovato un film davvero politico, provate a guardarlo. E mi sono chiesto: ma perché devono farlo gli Americani, che a volte sono scemotti, e non possiamo farlo anche noi?”.

Nel primo episodio de Il Ragazzo Invisibile si avverte una dimensione etica, una tendenza all’introspezione. Ricollegandosi anche ad Educazione Siberiana, si tratta di tematiche – quelle del guardarsi dentro e del problema morale – che tu hai affrontato spesso e hai portato avanti nei tuoi film. Le ritroveremo anche nel secondo episodio? E quante possibilità ci sono che questo secondo capitolo preannunci la realizzazione di un terzo, a chiusura di un’ideale trilogia? “Certo, anche nel secondo film è presente questo sguardo introspettivo, anzi, per certi versi è una componente che si approfondisce e che va più addentro l’anima del protagonista e non solo di Michele, ma anche di sua sorella, delle loro madri e di tutti i personaggi. C’è un’attenzione maggiore nei confronti dell’aspetto psicologico, eppure paradossalmente il film è venuto fuori molto più spettacolare del primo capitolo: dura un’ora e trenta minuti, vi succede davvero di tutto, c’è un ritmo molto serrato. Che dire, è davvero un oggetto indefinito e molto particolare, io stesso ancora sto cercando di capire che cosa sia, ma ne sono fortemente innamorato. Ormai sono sulla soglia dei settant’anni, tra qualche giorno (il 30 luglio) ne compirò sessantasette e, tra l’altro, sono nato qui vicino, a Napoli, e sono stato concepito ad Anacapri, per l’esattezza. Ebbene, in questa fase mi sta succedendo una cosa particolare, è come se stessi scoprendo un secondo viaggio nella giovinezza, per così dire, e la possibilità di sperimentare un modo di raccontare più libero dalle storie, da quello che gli Americani chiamano storytelling e dall’attenzione alla rigida strutturazione narrativa nei tre atti canonici. Sto cercando di scompaginare un po’ le carte e questo film è a tutti gli effetti un viaggio, un trip, come si diceva negli anni Settanta. Pensate che una delle prime frasi che il protagonista dice è: Faccio sempre lo stesso sogno, poi mi sveglio pensando che non sia vero e invece mi rendo conto che è vero. Naturalmente, il film non si riduce al sogno del protagonista, ma ha un andamento molto più onirico che realistico. Quanto alla trilogia, c’è un’apertura sostanziale per un terzo film, come da regole non scritte di una saga. Dipende da come cresce Ludovico: se tra due anni sarà ancora così interessante, bene, altrimenti lui farà la sua strada ed io la mia”.

coverlg_home (1)Il Ragazzo Invisibile affronta la tematica del desiderio di scomparire in un’epoca in cui l’invisibilità è temuta dai giovani. Era una scelta precisa? “Il motivo per cui abbiamo scelto quel superpotere era proprio per andare contro il desiderio di presenzialismo che vediamo ora trionfare tra i giovani. C’è troppa voglia di apparire. Non esistiamo se non c’è online una nostra foto!”.

La discussione si sposta poi su Italy in a Day, un progetto che Salvatores ha amato molto realizzare e che ha dichiarato di voler portare avanti. Ispirandosi ad un’idea realizzata da Ridley Scott, Salvatores ha selezionato, tra 44.197 video, una serie di filmati home-made arrivati da tutta la Penisola e li ha montati in un’unica pellicola, presentata fuori concorso alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia. Hai già un seguito nella tua testa, proprio anche a livello di esplorazione? Ci stai lavorando?Ecco, questo è un grosso rammarico che ho. Italy in a Day era una pellicola molto impressionista, filmava quel giorno. Vorrei invece introdurre elementi di novità e magari, chissà, proporre un’immagine del futuro del nostro Paese. Ho sempre pensato che Italy in a Day potesse diventare un appuntamento quasi annuale e infatti abbiamo proposto alla Rai delle altre puntate, per così dire, di questa esperienza. Un’idea, ad esempio, era quella di filmare il capodanno degli Italiani, il passaggio all’anno che verrà, per dirla con Lucio Dalla. Trovo che si tratti di una bella idea: rappresentare le aspettative, le paure, il niente di quella notte così particolare, dal momento che ci sono molte persone che preferiscono trascorrerla da soli, in casa. Non so, la Rai a volte fa delle cose meravigliose, altre volte si perde un po’ in certi complicati meccanismi decisionali. Eppure, Italy in a Day ha avuto un successo straordinario, la gente mi conosce più per questo progetto che per il fatto di essere un tifoso interista! È davvero un peccato non proseguire il progetto, fosse per me sarei pronto a ripetere immediatamente un esperimento simile. Ma, appunto, è un progetto che ha bisogno di un network importante, anzi, proprio della Rai, di un network pubblico che permetta di realizzare questa cosa. Se qualcuno della Rai è presente in sala o mi ascolterà, se lo segni”.

Hai appena accennato all’importanza della fantasia e alla tua difficoltà a creare una pellicola realistica o naturalistica: in un’operazione come Italy in a Day, quindi, non c’è un intento documentaristico? “Dipende dalla prospettiva con cui si guarda il mio lavoro: non sono in grado di dare uno sguardo totalmente realistico, troppo vicino alla realtà. È vero, ho girato alcuni documentari: 1960, ad esempio, è composto da immagini storiche, ma all’interno di queste ho costruito una storia fittizia e il risultato è stato quindi una sorta di documentario in cui è stata messa della fiction. In maniera uguale e allo stesso tempo diversa si può pensare a Italy in a Day, l’intenzione è anche e soprattutto artistica”.

Salvatores si dice interessato alle serie televisive, in particolare dopo l’esperienza dietro le quinte per Quo Vadis, Baby, la mini-serie ispirata all’omonimo film e trasmessa su Sky nel 2008: “Oggi le serie televisive sono fondamentali perché aprono il racconto ad un numero infinito di direzioni e di variazioni e seguono l’andamento delle nuove tecnologie. Prima o poi mi piacerebbe farne una, perché no?”.

A proposito di Capri, Mario Martone – con il quale in passato Salvatores ha avuto un aspro battibecco riguardo le prospettive del cinema italiano – ha scelto proprio l’isola partenopea come set del suo prossimo film. Salvatores girerà mai a Napoli? “Attualmente sto già lavorando a diversi progetti futuri, con il mio staff stiamo mettendo a punto delle tracce. Ma non saprei dire quale sarà il mio prossimo film. Forse, il progetto allo stato più avanzato è una produzione internazionale che dovrei realizzare negli Stati Uniti”.

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