Grace Jones: Bloodlight and Bami, di Sophie Fiennes

In sala oggi e domani, il documentario ha una capacità notevole di amalgamare i vari supporti usati per girare, dal mini dv alla pellicola, per ridare la potenza dell’icona della musicista

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Uno dei motivi per cui si può (e forse si deve) amare Grace Jones è semplicemente che l’artista giamaicana è un classico esempio dell’ “essere un capolavoro” come diceva Carmelo Bene. Al pari di pochi altri grandissimi (viene in mente Tom Waits), la Jones abita una dimensione altra. Non si può neanche dire che vada oltre la normalità, dato che probabilmente da sempre è stata in una dimensione differente. Infatti è intelligente il documentario di Sophie Fiennes nel rendere questa altra dimensione. Per due ore siamo immersi in un sogno di musica, colori, parole, immagini in cui Grace è letteralmente protagonista di un affresco. Con un’attenzione concentrata, ci sembra, più su lei come artista che sul rapporto con i fans o con gli altri in genere. Esistono gli altri, e li vediamo, ma il nostro sguardo è completamente catalizzato da lei.

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La regista giustamente segue Grace sapendo che essa sarà non solo il centro della scena ma forse anche la vera regista dell’opera, capace di usare la propria sensibilità per governare tutta la costruzione senza neanche stare dietro la camera. Ci sono momenti di puro salto che toccano ed esplorano la fisicità della Jones dando bene il senso di ciò che scrivo, tipo la spiazzante battuta “if only my pussy could be tight as this oyster” o due nudi integrali in cui rimaniamo a bocca aperta non solo per la bellezza di un corpo che ha comunque 70 anni (e ne dimostra 20 di meno) ma per l’audacia nel mostrarlo, laddove si sente come per la Jones sia completamente naturale. Tali salti sono sia improvvisi che preparati da una sapiente costruzione di montaggio. Infatti registriamo i primi 10, 15 minuti come uno degli inizi più belli che abbiamo visto recentemente, con una capacità notevole di amalgamare i vari supporti usati per girare, dal mini dv alla pellicola, a ridare il senso e la bellezza di ciò che vediamo (il rosso della prima canzone di Grace in corpetto, nel teatro di Dublino, fa venire i brividi). La saggezza nel combinare il giusto supporto per il giusto ambiente è percepibile ad esempio dal primo improvviso e raggelante scorcio di giungla giamaicana, che ci ricorda immediatamente l’attesa, la mistica, quel vuoto/pieno di amati panorami visti in Aguirre o Fitzcarraldo.

Ma in tutto ciò al centro c’è Grace Jones, non sappiamo neanche bene dove sia di volta in volta, dobbiamo riconoscerlo dai panorami. È possibile vederla andare a letto dopo un concerto a Londra e vederla svegliarsi a Tokyo. Quasi non ci importa di questo casino geografico, sembra anzi che il mondo stesso sia un non luogo e solo chi sa esserne protagonista è capace di dargli delle coordinate, chi è capace quindi di posizionarsi (ed è bello vedere Grace litigare con un coreografo a Parigi che l’ha posizionata su un palco “come fosse una maitreuse in mezzo a delle prostitute”). Parrebbe che solo in Giamaica Grace finalmente possa arretrare da sé stessa per dare spazio alla madre, al fratello, alla famiglia, allo spazio, ai ricordi, ma la sensazione è anche quella di abile mossa per illuminare un fondale. Sensazione che viene ribadita infatti dalla telefonata al figlio mentre si trova su un taxi di notte a Parigi, a cui ridendo ricorda di non lamentarsi troppo dato che lei era abituata ad andare sul set direttamente dal club dove era stata tutta la notte a ballare. Ma non c’è competizione, è solo essere o non essere un capolavoro.

Titolo originale: id.
Regia: Sophie Fiennes
Distribuzione: Officine Ubu
Durata: 116′
Origine: UK, 2017

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