Hacker Porn Film Festival – Apocalissi, fisting, mondi

Un festival di cinema in grado di scavalcare la sua stessa proposta filmica. L’Apocalisse è imminente, impegniamoci a portarla fino in fondo. Sulle spalle dell’Hacker Porn c’è ancora spazio.

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In molti si potranno chiedere per quale motivo, in queste perfette giornate di sole che hanno cullato Roma, un manipolo di persone decida di sua sponte di chiudersi al buio di un localino seminascosto, rinunciando all’azzurro della primavera. La verità è che, come ogni sacrosanto movimento sfinterico, ad ogni chiusura segue un’apertura. Nel caso dell’Hacker Porn Film Festival, per ogni porta chiusa se ne sfondano altre cento, in ogni direzione. Perché l’infezione può esser partita dalla saletta cinema del 30 Formiche, ma si è subito tentacolarmente diffusa ovunque. Ecco, se un festival di cinema oggi ha bisogno di trovare un senso, deve essere capace di scavalcare la sua stessa proposta filmica, renderla materia malleabile e indigeribile per un pubblico che non voglia sottostare allo scontato regime alimentare bocca-ano, ma sia pronto a risputare indietro qualcosa di diverso. Insomma, non solo una via di fuga, ma soprattutto la possibilità di fare mondi.

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Sebbene impossibile, sarebbe utile passare in rassegna tutti i titoli visti, ma un occhio ai film vincitori ci regala già un ampio respiro di possibilità. Vengono premiati con una menzione speciale Furniture Porn Project, di Antoine Hèraly, che potrebbe addirittura rendere piacevole la vostra prossima visita all’IKEA; e Piedad, di The Outdoor Cat, coloratissimo inno alla prostituzione, alla necrofilia (consensuale, of course), e ai mojitos. Il premio come miglior corto italiano va a POW di Werther Germondari e Maria Laura Spagnoli, frammento di un film a episodi di prossima uscita (che a questo punto moriamo dalla voglia di vedere), dove la dimensione allucinatoria della guerra trova forma nelle fattezze mostruose di una sessione di bdsm improvvisata nella foresta. Il miglior corto internazionale è invece Full, del collettivo queer AORTA Films, di cui si è anche mostrata una piccola retrospettiva e che rappresenta un limpidissimo esempio di performatività consensuale tra corpi non iscritti nelle aspettative della società capitalista. (Imperdibili anche Lubricas, di Anais Cordova-Paez, il folle MeTube2 di Daniel Moshel, Protokoll di Jan Soldat, e l’italiano Blu, di Medusa, per chi scrive una delle visioni imprescindibili del festival).

Sul versante lungometraggi, il miglior documentario è The 36 years old Virgin, di Skyler Braeden Fox (che ci ha anche fatto ballare con il suo progetto musicale Peanut Envy). In poco più di mezz’ora, un’incredibile condensato di intimità, autorappresentazione, coraggio, ricerca attiva e affresco corale di una comunità di amici. Nel voler riprendere filmicamente la perdita della sua verginità (o piuttosto capire cosa significhi questa parola), Skyler (trans female-to-male) realizza una bellissima opera sull’uso del corpo e sulle aspettative a esso legate, e come esse possano essere aggirate («non importa se non succede, è un documentario sul sesso, non un porno»), e l’incontro finale di tutta la crew, che abbandona microfoni e luci per un abbraccio collettivo è, in fondo, ciò di cui abbiamo bisogno. Meritatissimo anche il premio come miglior lungometraggio allo svedese Who Will Fuck Daddy? di Lasse Langstrom, documentario sperimentale dal forte gusto estetico, iper-colorato ed eccessivo (pensate a Jack Smith, Shuji Terayama, Pink Narcissus) con il pregio di non piegarsi mai sulla sola componente visiva. (Altre visioni imperdibili: la menzione speciale My Body My Rules, di Emilie JouveArmy of Love di Alexa Karolinski e Ingo Niermann, La Muñeca Fea di Claudia Lopez Garcia e George Reyes, Take Me Like The Sea e Flower di Salty Cheri)

Potrei parlare di tante altre visioni, incontri, parole che hanno riempito questa intensa settimana, ma penso sia necessario spendere alcune righe su ciò che ritengo sia stata la visione più folgorante dell’intero festival. La retrospettiva sulle opere di Ben Berlin ci ha infatti posto di fronte a una serie di lavori brevi uniti da una visione artistica e stilistica unica, spietata nella sua precisione e ossessione. Un mondo post-apocalittico fatto di luna park abbandonati, palazzi sventrati in qualche innominata periferia, mattatoi dimessi. Nessuno degli attori pronuncia una parola o un suono: sia i gemiti di piacere che quelli di dolore sono quasi assenti da tutti i lavori. L’unico atto penetrativo concesso sembra essere il fisting e un lavoro come Nightshift (che ha come location un cantiere) amplifica questa sensazione di vedere all’opera un’imminente rivoluzione queer apocalittica.

I corpi sono trans, androgini e fuori norma, sempre pronti a sfondare ed eludere ogni aspettativa. Come in Dogfight, dove non arrivano nemmeno a spogliarsi o a consumare qualsiasi atto sessuale, ma rimane vivido il ringhio costante, il rumore della catena, l’anfibio sul volto. Ecco, nonostante il cinema di Berlin sia, per necessità, rapido, tagliente, guerrilla, la sua attenzione ai dettagli è una delle (molteplici) chiavi. Come mi ha detto lui stesso, è strano vedere tutti questi lavori uno dietro l’altro – sicuramente è stata una delle proiezioni più movimentate, con un continuo entrare e uscire di persone incuriosite o disgustate (ma, come ha saggiamente affermato il mio compagno di visioni: «è una selezione naturale, ci vorrebbe più bdsm a scremare le persone che ci circondano»).
Se certe visioni raggiungono davvero un limite per l’occhio non allenato (su tutte Butcher’s Hook, il titolo dice tutto – ma anche il fantastico Green Velvet, picco di creatività e con l’inaspettata location bucolica lacustre), è completamente assente la dimensione morbosa o prevaricatrice. Per quanto il mondo filmico di Berlin sia un costante sopruso, una violenza oscena come unica forma di comunicazione in un mondo che ha abbandonato il linguaggio, è altresì evidente come la totalità dell’esperienza nasca da una forte componente partecipativa di tutti gli elementi del cast (solo in Dogfight abbiamo la possibilità di vedere qualche foto dietro le quinte), elemento imprescindibile per la buona riuscita di qualsiasi progetto che abbia nella consensualità e nella comunità di intenti il suo obiettivo. Ecco, allora, un’altra immagine ricorrente che conservo: il corpo caricato sulle spalle e portato via, a chiudere il film – non posso non pensare a un verso di Paul Celan: Die Welt ist fort, ich muss dich Tragen (il mondo è finito, devo trasportarti).

Se l’Apocalisse è imminente, impegniamoci a portarla fino in fondo. Sulle spalle dell’Hacker Porn c’è ancora spazio, per chi vuole unirsi. No Gender, No Border.

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