Harry Potter e la camera dei segreti, di Chris Columbus

Alla seconda apparizione sullo schermo il piccolo mago accusa già i difetti strutturali di una serializzazione troppo elevata, ma ha dalla sua la professionalità di Columbus.

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La “Potter-mania” ha ormai infiammato il pubblico e, cosa forse più importante, sembra avere attirato gli strali della critica, decisamente poco benevola nei confronti del primo film tratto dal ciclo di romanzi di J. K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale. Un peccato, aggiungiamo, tenendo conto che l’operazione condotta da Columbus era da considerarsi come un riuscito tentativo di trasposizione cinematografica di un testo letterario. Operazione solitamente complessa con i romanzi di fantasy, generalmente costruiti su un lessico molto particolareggiato e una prosa densa e musicale, inevitabilmente destinata a perdersi nel passaggio sullo schermo: il cinema, si sa, è altra cosa rispetto alla letteratura e un film fantasy ha come primo comandamento quello di restituire la visualità dell’universo immaginifico. Possiamo perciò dire che, se il testo riproduce la “cultura” del mondo fantasy, il film ne plasma la “forma”. Per Harry Potter, però, le cose sono un po’ diverse: il testo di partenza, infatti, è tutt’altro che stimolante letterariamente e, anzi, ha la scabra forma di un vademecum attraverso il quale l’autrice ricolloca l’immaginario codificato dalla tradizione fantasy in un universo plausibile, che ha la forma di quello scolastico, affine a quello dei lettori. Questo da un lato porta alla denunciata banalizzazione del fantasy stesso, mediante un linguaggio che ha “rinunciato a mettersi in gioco”, ma dall’altro stabilisce immediatamente come il cinema, con le sue possibilità di visualizzare i mondi, sia molto più adatto (per una volta) a raggiungere lo scopo caro alla Rowling.

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Portare il piccolo mago Harry sullo schermo, insomma, è operazione molto più agevole di quella compiuta da Peter Jackson con Il Signore degli anelli. Il merito di Columbus, perlomeno nel primo film, era stato quello di non adagiarsi sul testo di partenza, ma di attuare una lucida operazione di riscrittura visiva attraverso una visualità tipicamente anni Ottanta, basata cioè su un barocchismo della messa in scena in grado di satollare la vista e di fare letteralmente la storia. Il regista dimostrava così di rifarsi a una tradizione di cui egli stesso era stato artefice, in quanto ex collaboratore di Steven Spielberg. Da tutto questo, però, si evince che il gioco è destinato a sfilacciarsi sulla lunga distanza, se non rinnovato narrativamente, e, infatti, la visione di questo Harry Potter e la camera dei segreti non sembra ripetere la magia del capostipite, lasciando anzi che i difetti strutturali emergano con preoccupante urgenza: una storia che ricalca con troppa precisione quella del precursore, un’approfondimento troppo scarso dell’universo e dei personaggi e, dal versante meramente cinematografico, un ritmo troppo lento per una narrazione che sfiora l’eccessiva durata di quasi tre ore. A questo punto sorge spontaneo chiedersi per quale motivo la Rowling abbia concepito un ciclo di sette episodi invece di limitarsi alla canonica trilogia.

Per fortuna ci sono però alcuni aspetti meritevoli di attenzione, da attribuire ancora una volta alla perizia registica di Columbus, che ha incupito i toni traghettando la storia, da mero contenitore che ricontestualizza il bestiario del fantasy, a opera ancora una volta personale. Così il ragno Aragog (fratello di sangue dello Shelob de Il Signore degli anelli) e il basilisco howardiano (con ovvio riferimento al cimmero Conan) divengono archetipi di un monster-movie che, nella filmografia di Columbus si pone come versione aggiornata di Gremlins, esattamente come il primo Harry Potter era una sorta di nuovo Piramide di paura. Il vero personaggio-fulcro, in questo caso, diventa l’elfo Dobby, che racchiude in sé la capacità di suscitare tenerezza del mogwai Gizmo e il sadismo delle trovate caro ai Gremlins. La visualità dark, inoltre, nel racconto, fa da pendant con i dubbi sulla natura stessa del protagonista, sempre più vicino al Lato Oscuro (per dirla alla Lucas) della magia. Spunti che probabilmente dovranno essere approfonditi in seguito, sempre che Alfonso Cuarón (regista del prossimo episodio) sappia dimostrarsi in grado di governare il testo con la personalità dimostrata da Columbus.  L’ultimo appunto va al cast e al gradito ingresso, in “Potterlandia”, del magnifico e cattivissimo James Isaacs e di un Kenneth Branagh simpaticamente impegnato a non prendersi sul serio, ridicolizzando proprio la recitazione gigionesca che l’ha reso celebre. La loro bravura, comunque, non basterà certo a colmare il vuoto per la scomparsa del grandissimo Richard Harris, la cui apparizione sullo schermo ci regala gli ultimi lampi di più sincera emozione.

Titolo originale: Harry Potter and the Chamber of Secrets
Regia: Chris Columbus
Interpreti: Daniel Radcliffe, Emma Watson, Rupert Grint, Kenneth Branagh, Richard Harris, Jason Isaacs, Maggie Smith, Alan Rickman, Robbie Coltrane, Warwick Davis
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 161′
Origine: UK, USA, 2002

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
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