Hold the Dark, di Jeremy Saulnier

Jeremy Saulnier si inserisce in quel gruppo di autori fuori radar che, muovendosi nel genere, guardano oltre, riempiendo le loro opere di riferimenti sociali, antropologici, morali. Su Netflix

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L’Alaska è una terra che si fa davvero fatica a considerare sacro suolo statunitense. Questi candidi luoghi così vicini alla glaciale fine del mondo, con le loro nevi sempiterne, con le notti e i giorni che si allungano e si ritraggono in modo osceno e innaturale, generano sensazioni stranianti: meraviglia e orrore, confusione e oblio. Lo sa bene l’Al Pacino di Insomnia che, catapultato qui per un caso d’omicidio, si ritroverà presto a perdere il sonno e la ragione. Un destino non troppo diverso tocca anche allo scrittore naturalista Russel Core (Jeffrey Wright), chiamato in un villaggio per indagare su un fatto misterioso. Un ragazzino, infatti, è stato rapito dal branco di lupi che terrorizza la regione e la sua giovane madre ha bisogno di aiuto prima che il marito, soldato in Medio Oriente, ritorni con tutto il suo implacabile rancore.

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Jeremy Saulnier, alla sua quarta regia, si inserisce a pieno titolo in quel gruppo di autori fuori radar che, muovendosi coscientemente nel genere, guardano oltre, riempiendo le loro opere di riferimenti sociali, antropologici, morali. Come S. Craig Zahler e David Robert Mitchell, il regista americano usa l’escamotage di una trama accattivante per proiettare il proprio spettatore dentro dimensioni asfissianti, realtà disturbanti, dolori accecanti. Non c’è, infatti, troppa differenza tra il camerino lercio del locale nazi di Green Room e le distese bianche di questo Hold The Dark. La sofferenza e l’insicurezza che si respira in ogni istante è la stessa. La minaccia è sempre in agguato, dietro una porta o un albero non fa differenza. Non certo un caso che il film nasca quasi contemporaneamente all’impegno di Saulnier con la terza stagione del redivivo True Detective.

Hold the Dark, tratto dal libro di William Giraldi, a differenza dei film precedenti di Saulnier, però, ha l’onere di appoggiarsi eccessivamente su una quest investigativa che tra lo svelamento effettivo del mistero e l’enfasi su una confezione narrativa fatta di agghiaccianti dettagli non trova mai il giusto equilibrio. Scisso tra lo stoicismo dei suoi protagonisti, quasi inermi di fronte alla violenza e l’orrore che compiono e/o che vivono, e i picchi atroci di violenza assoluta, il film mette insieme talmente tante suggestioni e ipotesi che si fa fatica a seguirne il filo logico, a cogliere l’obiettivo concettuale dell’opera (entertainment o lezione culturale?).  Lo spettatore, infatti, si ritrova spesso a vivere le identiche emozioni del povero protagonista (in un’immedesimazione empatica quasi totale). Come il personaggio interpretato da Wright, perdiamo ogni certezza granitica e ci ritroviamo a rimanere spiazzati tra l’incomprensibilità della verità che si sta scoprendo e gli eccessi (inutili?) che ci scorrono di fronte ai nostri occhi.

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