HORROR & SF – Eddie the Sleepwalking Cannibal, di Boris Rodriguez

eddie the sleepwalking cannibal

Nonostante lo spoiler del titolo (che dapprima, salvo invasione forzosa della produzione, sarebbe dovuto essere semplicemente Eddie), non è certo il cannibalismo il fulcro del primo lungometraggio di Boris Rodriguez, bensì l'arte: l'arte in quanto processo creativo, medium espressivo intrinsecamente ancorato alla morte, alla sofferenza, al dolore.

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L'abbacinante bianco della neve canadese è lo stesso riverso sulla tela ancora intonsa di Lars Olafssen, pittore danese in forte crisi creativa che (ri)trova musa ispiratrice la morte, l'osservare golosamente teste mozzate, arti strappati, organi trangugiati: a perpetrare tali atrocità è Eddie, omaccione tonto e bonario che di notte si trasforma in killer sonnambulo e cannibale, scaricando su ignare prede umane quell'elevata dose di frustrazione che accumula nelle sue giornate.

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Nonostante lo spoiler del titolo (che dapprima, salvo invasione forzosa della produzione, sarebbe dovuto essere semplicemente Eddie), non è certo il cannibalismo il fulcro del primo lungometraggio di Boris Rodriguez, bensì l'arte: l'arte in quanto processo creativo, medium espressivo intrinsecamente ancorato alla morte, alla sofferenza, al dolore; l'arte per l'arte, in quanto libera da ogni schema; l'arte in quanto cinema, svincolato da ogni restrizione, da ogni forma di ancoramento, sedimentazione. E in questo senso Eddie the Sleepwalking Cannibal (2012) può leggersi come una commistione, un pentolone di generi e richiami disparati perfettamente coesi: in primis un certo humor nero che in qualche misura ricorda quello coeniano, e difatti Lars non è poi dissimile da quel Burton Fink, (altro) brillante artista che tramuta la sua crisi creativa in feroce violenza omicida pur di ridonare stimoli al suo genio. Ma a differenza dello scrittore newyorkese Lars è ispirato dal solo osservare, dal posizionarsi quatto in posizione preferenziale (e infatti quando tenterà di compiere un omicidio per sua mano non avrà successo), il suo talento (ci spiega lo stesso Lars) è nato dopo un violento incidente automobilistico: è dunque il trauma visivo, contusivo a generare l'ispirazione, la vocazione, sussulto interiore che scuote, smuove e dona punti di vista nuovi, diversi e dunque originali, pregni di dolore e sentimento. Vi è anche una vena splatter seppur velata, spesso fuori scena, quasi a sottolineare, se ancora ce ne fosse bisogno, la sua natura accessoria, funzionale al disegno di Rodriguez che mira piuttosto (volontariamente?) a rendere la pellicola un piccolo manifesto di poetica, di denuncia (e difatti anche la commedia, altro registro a cui assurge, non diviene mai inappropriatamente parodico o irrisorio).

 

E' di conseguenza calzante la scelta di non mostrare mai le opere prodotte da Lars: è l'opera d'arte non più esposta né disposta al giudizio (art for art’s sake) che troppo spesso ne limita la potenza, la portata. L'arte deve essere fine a se stessa, frutto di un traboccamento e non di un adattamento; il rigurgito interiore non deve trovare ostacoli, limiti, deve rifluire senz'argini ne margini. Il giudizio è pericoloso (Lars denigra fortemente la scultura di Leasly nonostante in realtà ne sembri impressionato), è soggetto a invidia, malevolenza, rabbia, rancore. Gli unici dipinti ad essere palesati sono quelli di Eddie, elementari scarabocchi, esempio di arte viscerale e sincera, che giunge direttamente dal profondo, dalla vera essenza (e nel caso di Eddie risalgono in superficie immagini di carni masticate e corpi dilaniati, ma anche visioni più docili, a sottolineare la sua natura ancipite). Proprio come un originale binomio appaiono Eddie e Lars, il loro è un problema comunicativo: Eddie ha difficoltà a relazionarsi, a esprimersi, Lars, per quanto goffo anche nei rapporti interpersonali, non è più capace di generare arte, di comunicarla e quindi di comunicare con il mondo (“dipingiamo per dare un immagine a ciò che non riusciamo a descrivere a parole” pronuncia Lars ai suoi studenti); e difatti tra i due sorge una complicità autentica e credibile, si completano e intersecano alla perfezione, ritrovando ciò che ad uno manca nell'altro nonostante una convivenza dapprima un po’ forzosa.

 

Appare quasi inevitabile (e forse prevedibile dopo l'incipit) che il film si concluda sulla/con la morte, in quanto processo liberatorio, gesto di estrema fiducia e speranza nell'arte: dopo l'apoteosi cannibalica di Eddie, Lars è pronto per la sua opera più grande (poiché pare che l'estensione della violenza innalzi gradualmente la validità, la grandezza del dipinto) ma l'opera pittorica più veritiera e importante sulla morte non può che compiersi tramite una pennellata che sia anche ultimo flebile battito di vita.

 

Operazione interessante quella di Boris Rodriguez, che come opera prima vince all'Amsterdam Fantastic Film Festival e al Leeds International Film Festival (complice anche un cast nient'affatto di secondo livello che vanta tra gli altri Thure Lindhardt, Georgina Reilly, lo Stephen McHattie di Pontypool), una pellicola che cerca di indagare l'orrore che può annidarsi alla base dell'arte, l'elaborazione creativa di un'atrocità visiva, ripercorrendo, in maniera però solo collaterale, terreni battuti già da Carpenter ne Il seme della follia (operazione tuttavia più squisitamente onirica e allucinata) o Cronenberg ne Il pasto nudo (dove ad essere analizzata era la variante velenosa e assuefacente del processo creativo).

 

 

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