HORROR & SF – Sound of My Voice, di Zal Batmanglij

sound of my voice

L'esordio del duo Batmanglij-Marling è costruito per incantare, infondere sicurezza, vellicare i sensi. E ciò che dovrebbe essere spettacolarmente enfatizzato è successo prima e magari accadrà dopo il tempo della visione: è la fantascienza come idea metafisico/filosofica e non fisico/scientifica, un cerchio che non si chiude, che resta prepotentemente aperto

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Il futuro è un’ipotesi, un immaginario descritto a pochi prescelti dalla seducente Maggie, viaggiatrice nel tempo, leader ispirata di un gruppo di seguaci che dal seminterrato di un'abitazione si prepara a vivere gli strascichi di un incombente guerra civile, destinata a mutare definitivamente gli (eco)equilibri del pianeta. Peter e Lorna, figure parzialmente complementari – lui non ha mai definitivamente superato la morte della madre, lei non ha ancora dimenticato i trascorsi da modella votata ad ogni sorta di eccessi – decidono di investigare (infiltrandovisi) sull'ennesima “setta” sorta nello scenario multiforme di Los Angeles…

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E' interessante fin da subito notare come l'intero sfondo di Sound of My Voice (2011) appaia costruito per incantare, infondere sicurezza, vellicare i sensi: tutto sembra avvolto da una cornice sognante, da un persuasivo alone di serenità. Il seminterrato appare ben illuminato e accogliente; la parola d'ordine è una stretta di mano speciale e prevede subito un contatto diretto che risulta rassicurante; gli altri membri del gruppo appaiono coesi e cordiali, ognuno è vestito allo stesso modo con una semplice tunica bianca; l'entrata in scena del leader è ben strutturata e Maggie appare splendente, una sirena omerica letale ma allo stesso tempo ipnotica, ammaliante come “il suono della sua voce”. L'àncora numerata dipinta sulla sua pelle è il simbolo del viaggiatore: con la sua funzione di ormeggio impedisce la dispersione tra le correnti, flussi di materia spazio-temporale nei quali è facile smarrirsi, tutt'al più se il trasporto avviene attraverso l'acqua (all'interno di una vasca).

 

Quelle di Maggie appaiono come lezioni, seminari mediante i quali avvicinare l'adepto: la mela diviene la logica che reprime il cervello e senza la logica si hanno infinite possibilità di espressione, e ciò si concretizza nell'elaborazione del passato che aiuta a svelare il presente, a sentirsi, viversi del tutto. Dunque vomitare la mela è ripudiare il controllo, purificarsi dalla logica, quella concezione che castra l'evoluzione e limita la sfera delle possibilità (quasi una lettura collaterale del tema portato su lidi più estremi da Jim Jarmusch in The Limits of Control). La grandezza della regia/sceneggiatura sta proprio nel mantenere la pellicola in un perenne (e voluto) limbo di sospensione: Maggie profetizza (attraverso la metafora della mela) lo svincolamento dal controllo, ma per far ciò impone a sua volta un forma di (diverso?) controllo sul gruppo, i cui membri appaiono totalmente soggiogati; Peter stesso da pseudo-giornalista infiltrato si trasforma nel più devoto suddito, rapendo anche una sua alunna per compiacere il leader. E i dieci capitoli in cui il film è scandito sembrano quasi un percorso di propedeutico allontanamento dell'individuo (Peter) dal nucleo di partenza (Lorna) verso la setta.

E in questo senso appare evidente il filo rosso che collega quest'opera prima di Zal Batmanglis con il successivo The East (co-sceneggiato, co-prodotto e interpretato dalla sorprendente Brit Marling nei panni di Sarah, infiltrata sotto copertura in una cellula ecoterrorista), variazione sul tema “setta/circolo chiuso” registicamente più impostata. Affiancando i due lavori è chiaro quanto l'autore sia interessato a trasporre quel che potremmo definire il costrutto dei substrati interni alla congrega: le gerarchie, i rituali, le procedure di reclutamento e quelle di allontanamento, cosi come le varie attività ludiche, motivazionali, il loro lento divenire epicentro vitale dell'iniziato. Il tutto nel contesto di un cinema minimale, affascinante, capace di mantenere la fantascienza fuori dallo spazio(tempo) cinematografico, esattamente come Another Earth, gemello diverso, film speculare per struttura, nel quale l'evento fantascientifico resta latente sullo sfondo, un’onnipresente nenia avvertita in lontananza, attraverso una tv o una radio. Ciò che dovrebbe essere spettacolarmente enfatizzato è successo prima e magari accadrà dopo il tempo della visione: è la fantascienza come idea metafisico/filosofica e non fisico/scientifica, un cerchio che non si chiude, che resta prepotentemente aperto, ricamato sullo stesso, catartico, corpo attoriale di Brit Marling.

 

 

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