I mille occhi 2017: Eros e Priapo
Dal 15 al 21 settembre il Teatro Miela di Trieste ha mescolato pellicole d’annata con prodotti contemporanei, tracciando linee tematiche e geografiche eterogenee. Il nostro resoconto dell’edizione
Si è conclusa ieri la XVI edizione del Festival triestino I mille occhi, rassegna che trae linfa vitale dalla mescolanza e (ri)scoperta di pellicole d’annata con prodotti contemporanei, tracciando linee tematiche e geografiche eterogenee e interessanti. Se a disegnare i segmenti di apertura e chiusura del festival sono due film del regista britannico Seth Holt, Senza domani (Nowhere to Go, 1958) e La mano che uccide (Danger Route, 1967), nel mezzo della settimana di proiezioni la ricerca ha viaggiato tra gli omaggi all’avanguardia croata e al cineasta serbo Lazar Stojanović, a Roger Fritz, Luce Vigo (figlia dell’immenso cinesta), Dimos Theos, Pietro Germi, Ermanno Olmi, Damiano Damiani e tanti altri. Segno distintivo di una ricerca libera e fluida quale appare questo coacervo di eventi e percorsi paralleli e intrecciati organizzato dall’Associazione Culturale Anno Uno, l’idea di una ricerca espressiva cinematografica sregolata, smontabile, outside the law. E nulla sembra più appropriato del riverbero, che traccia un percorso intrigante quanto eterogeneo, dell’opera di Carlo Emilio Gadda Eros e Priapo.
La figura femminile porta sempre con sé tutto il carico di pulsioni, timori, tabu che in ogni prontuario filmico ne fanno attrice, spettatrice, pedina, perturbatrice: sino ai generi che più esplicitamente tentano di imbrigliarla, liberarla o decifrarla, quegli ibridi che mescolano brivido orrorifico ed erotico, con qualche interessante e audace tentativo italiano, come La lupa mannara, di Rino Di Silvestro (1976). Qui il corpo voluttuoso e statuario di Annik Borel è mappa di un viaggio narrativo dai continui alti e bassi tra psichiatria, metafisico e metacinematografico, itinerario che oscilla tra il sessuale e l’animalesco fino a sfiorare perfino il grottesco, non perdendo tuttavia un suo fascino per la sfrontata naturalezza di certe scelte e soluzioni, per la rappresentazione di una spaccatura psicologica, di una voracità, di una sessualità bulimica che poi in fondo ha ben poco del bestiale. Tra i vari titoli presentati in quest’edizione della rassegna, che incrociano pulsioni e audacia – come Black Cat, W la foca o Cristiana monaca indemoniata (La vocazione) – sicuramente desta un interesse particolare la riscoperta de La cugina del prete (The Fireworks Woman), film erotico del 1975 di Wes Craven che lo firmò sotto lo pseudonimo di Abe Snake. Nel racconto della relazione incestuosa tra Angela e suo fratello Peter (cugino, nella versione italiana) l’ossessione e la peregrinazione sessuale di lei, c’è tutto il condensato dell’apice dell’età d’oro del porno e delle atmosfere post hippie, e un’attenzione densissima per gli elementi exploitation (qui in chiave hard porn) caratteristica dell’autore, in una mescolanza di fluidi, morbosità e registri narrativi che ne fanno un interessante lungometraggio sperimentale tra L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi, nei primordi artistici del grande cineasta.