IFFR 2020 – Il cuore puro di Rotterdam

I nuovi film di Adilkhan Yerzhanov, Yoji Yamada, Shinichiro Ueda, Parasite mostrato in una versione in bianco e nero “come una black comedy”: un percorso tra le visioni del festival appena concluso

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Il Rotterdam Film Festival si espande in modo fluido nella città, muovendosi tra una sala e l’altra partendo dal suo quartier generale, il Doelen, passando per il Cinerama e le case cubiche di Piet Blom, fino ad attraversare l’Erasmus Bridge per arrivare alle sale del Lantaren, oltre il quale si alleggeriscono i passi e si apre l’orizzonte visivo verso il mare e l’indimenticabile “New York”.
Le quattro sezioni principali del festival, Bright Future, Voices, Deep Focus, Perspectives, sono curate meticolosamente per offrire visioni di vario genere, tipo e durata.
Il programma Voices offre diverse visioni cannensi: il potente Les Misérables di Ladj Ly, il delicato Atlantique di Mati Diop, fino al caso di questi ultimi mesi, Parasite, presentato in una versione bianco e nero e con l’intervento di Bong Joon-ho in una masterclass dedicata. L’incontro, moderato in maniera divertente da Gerwin Tamsma, ha appassionato una ricca audience. Il regista narra di come uno dei suoi riferimenti principali di cinema sia Psycho di Alfred Hitchcock e di come Parasite sia una black comedy concepita appunto per una visione in bianco e nero: “forse è vanitoso da parte mia, ma quando penso ai classici, sono tutti in bianco e nero… quindi ho pensato che trasformando i miei film in bianco e nero potrebbero diventare dei classici”.

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Trasversali e interessanti sono le visioni della sezione Perspectives e in particolare della sottosezione Tyger Burns, un programma cinematografico dedicato agli sguardi di grandi nomi come Roy Andersson (About Endlessness); Andrei Smirnov (The Frenchman), Yamada Yoji che con Tora-san, Wish You Were Here commuove l’appassionato pubblico del Kino e firma l’epilogo delle vicende di un personaggio sopra le righe e di una famiglia che appare in ben quarantasette film dell’autore. E ancora, l’illuminante visione di The Nose or Conspiracy of Mavericks di Andrey Khrzhanovsky si rivela una delle vertigini del festival, con una standing ovation a fine proiezione. Il film riprende l’opera lirica “Il Naso” di Dimitri Šostakovič, usando un mix di tecniche di animazione, materiali d’archivio e sequenze girate, e segue in parte la trama surreale dell’opera lirica, coinvolgendo, perfettamente in linea con l’ironia insita de Il Naso, tutta una serie di personaggi grotteschi tra cui, in primis, Stalin. Un film fortemente politico oltre che ironico, un gesto del regista per chiedere “perdono a tutti quegli artisti, compositori, scrittori che sono stati censurati, deportati nei Gulag, e che hanno continuato a far sentire la propria voce”. Il regista ricorda anche il suo migliore amico Tonino Guerra che aveva consultato per questo progetto e che compare anche in una delle sequenze iniziali del film.

Di tutt’altro stile ci appare la sezione Bright Future dedicata ai giovani ed emergenti talenti cinematografici. Nella sezione troviamo Non c’è nessuna Dark Side di Erik Negro: un intenso racconto del tempo che si dilata e si contrae al ritmo del nostro cuore. Una riflessione sulla memoria, sull’archiviazione dei ricordi e sull’inafferrabilità degli attimi della nostra vita; ma anche un racconto intimo e personale dell’autore che, attraverso l’immagine, esorcizza la paura, comune, della scomparsa corporea dal mondo. E c’è probabilmente un fil rouge che collega Non c’è nessuna Dark Side con il film di un altro giovane autore italiano già noto per il suo particolarissimo sguardo: Checkpoint Berlin di Fabrizio Ferraro. Un film che, all’indomani del trentennale della caduta del muro di Berlino, apre un’ampia riflessione sui concetti di “confine”, “muro” e “turista”: al giorno d’oggi è forse più difficile “attraversare” dei muri, nonostante sia apparentemente tutto aperto? “Il muro non c’è più ma solleva il problema della sua stessa natura, della stessa natura del guardare”. Ferraro usa l’archivio dandogli una nuova vita e fondendo le immagini con le sequenze girate, descrizioni accurate di un viaggio. Le immagini di repertorio sono perlopiù di persone che guardano, con i loro binocoli, da ovest verso est e da est verso ovest.
Troviamo tra una proiezione e l’altra anche il secondo lavoro di un fine autore scoperto a Cannes 2018 con il film The Gentle Indiffence of the World: il kazako Adilkhan Yerzhanov. A Dark, Dark Man ritorna sulla scena del delitto tre anni dopo (nel tempo della storia) e ci ripropone lo stesso personaggio femminile (la splendida Dinara Baktybaeva) del precedente film, questa volta in vesti di reporter, che tenta di redimere il protagonista della storia, il Dark Man (Daniar Alshinov), un poliziotto corrotto fino al midollo alle prese con un omicidio di un bambino da parte di un pedofilo. I luoghi sono prevalentemente gli stessi dell’altro film: campagne sperdute, masserie abbandonate, baracche, container e campi di pannocchie. Tuttavia, questa volta, non c’è più quella luce dorata del primo film: le pannocchie sono state raccolte e il grigiore e l’oscurità avvolgono le vite dei personaggi quasi senza speranza. Non c’è sole, se non nelle ultime inquadrature del film, nell’epilogo forse un po’ troppo marcato che non lascia nulla di incompiuto, questa volta. L’atmosfera rimanda, inevitabilmente, a C’era una volta in Anatolia, di Nuri Bilge Ceylan.

Tutt’altro clima si respira in sala con Special Actors di Ueda Shinichiro. Si delinea in maniera sempre più nitida il percorso del regista giapponese che, dopo Zombie contro Zombie, crea un film di scatole cinesi, ricco di continui colpi di scena. Una speciale compagnia di attori presta le proprie capacità al servizio della risoluzione dei problemi degli altri, un rimando a Family Romance di Herzog ma con altri, esilaranti, risvolti.

E poi ancora in sala una marea di cortometraggi di autori provenienti da tutto il mondo e racchiusi in Time Capsules e le visioni sonore del WORM, uno spazio underground nel cuore di Rotterdam, nel quartiere Witte. Un luogo dove ritrovarsi di notte, dopo le proiezioni serali, a bere una birra ad un passo da autori come Albert Serra, Pedro Costa, Mati Diop…
In questo risiede l’eccezionalità del festival, nel suo essere “friendly”, nonostante le sue grandi dimensioni. Un festival eterogeneo e accogliente, che offre tantissimo, in primis il suo cuore, puro. Purezza che speriamo venga preservata negli anni.

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