Il cinema di Nouri Bouzid. Incontro con Stefano Grossi

La I edizione del Festival dei diritti umani di Milano è stata vinta dal documentario Nemico dell’Islam? Un incontro con Nouri Bouzid. Abbiamo incontrato il regista Stefano Grossi.

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La I edizione del Festival dei diritti umani di Milano è stata vinta dal documentario di Stefano Grossi Nemico dell’Islam? Un incontro con Nouri Bouzid.

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Tutto il cinema di Bouzid si nutre di riflessioni su laicità, capitalismo, terrorismo, tortura, patriarcato, sessualità e omofobia.  La prima intervista registrata da Grossi risale a marzo 2010, dunque nove mesi prima dello scoppio della Rivoluzione Tunisina, e un anno e mezzo prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Il documentario si arricchisce così delle vicende storiche successive, in particolare i fatti avvenuti in Iraq, Siria, Libia e Tunisia. Intervistato da Lucia Gotti Venturato e Gabriella D’Agostino di Soleluna, curatrici della rassegna di documentari del festival, Stefano Grossi ha detto:

“Bouzid è profetico, soprattutto se pensiamo che le sue considerazioni che ho registrato sono fatte dopo il film Making Of (2006) e prima che conoscessimo l’Isis e l’attentato al Bardo. Come si vede nel film, Nouri Bouzid ha intuito gli sviluppi della Storia. Ho un grande archivio di documentazione su quell’area geografica e posso assicurare che nessun altro è così preciso a riguardo. Purtroppo la disinformazione sui paesi arabi per noi è la norma.”

Lei ha vissuto in Tunisia. Che idea si è fatto, anche rispetto alle convinzioni di Bouzid?

Centinaia di detenuti sono stati liberati poco prima della promulgazione della nuova Costituzione nel 2014 e molti di loro hanno scelto il terrorismo. Data la disperazione diffusa è facile proporre ai ragazzi di diventare foreign fighters, ma è anche vero che molti hanno coscienza dei propri diritti e sono contrari all’integralismo. Vogliono la libertà, come la vogliono le donne, che sono molto attive. Il mio film inizialmente s’intitolava “Dall’altra parte”, ossia dall’altra parte del Mediterraneo, perché negli aspetti negativi Italia e Tunisia si assomigliano. Come qui, le giovani generazioni non hanno fiducia nella politica. Nel film c’è una canzone rap – curiosamente l’interprete è il cugino del ragazzo che ha aggredito Nouri Bouzid all’università in cui è docente – che parla di mancanza di prospettive, senso di impotenza, sfiducia rispetto alla politica: quello stesso testo potrebbe essere stato scritto ugualmente da un ragazzo italiano.

Ha detto che il film è cambiato in corso d’opera. Ci può dire in che modo?

Inizialmente il documentario voleva essere un omaggio al cineasta, il cui messaggio laico mi aveva colpito sin da quando avevo visto i suoi film al Festival del cinema africano di Milano. Ho trasformato il mio documentario perché i fatti storici hanno portato Bouzid ad intervenire sempre di più sulle tematiche d’ attualità, e sono aumentati i suoi nemici. Il suo cinema è politico, scoglie nodi complessi. È un’arma non violenta.

In un’intervista Nouri Bouzid chiede “Perché l’Isis non attacca mai lo Stato Israeliano?” Una domanda precisa.

Non è l’unico a pensare che i sionisti sostengano uno Stato Islamico del Levante. Anche altri nel mondo arabo pongono la stessa domanda. Per questo motivo ho scelto di montare l’audio di quell’intervista con immagini con cui hanno un legame diretto: i droni americani in azione.

Bouzid fa delle ipotesi sulle conseguenze delle rivoluzioni arabe?

Ne ha parlato la settimana scorsa alla Casa del Cinema di Roma. Quando descrive la resistenza democratica in Tunisia è fiducioso, mentre in Italia non possiamo esserlo, dato l’attacco alla Costituzione. È preoccupato per i giovani, come si evince dal film, ma per spiegare la sua volontà di essere ottimista mi ha detto: “Nel 2013 ho votato per la prima volta nella mia vita”. Finalmente.

 

Si può dire che le donne rifiutino l’integralismo e i suoi simboli?

Millefeuille, del 2012, parla dell’uso del velo. Una ragazza non vuole indossarlo e il fidanzato insiste perché lo faccia. Una sua amica, invece, lo indossa, ma è il suo datore di lavoro a preferire che non lo porti, perché vuole utilizzare tutta la sua bellezza per attirare clienti. Il regista vuole dirci che la libertà delle donne è un indicatore sociale preciso. E le donne hanno partecipato attivamente alla Rivoluzione tunisina.

Tornando al rap, Lei pensa che possa essere per i giovani un modo per avvicinarsi alla politica?

Non è un viatico per la rivoluzione, secondo me. Trovo riduca la dialettica al minimo.

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