Il club, di Pablo Larraín

Una potenza cinematografica disarmante malgrado l’apparente semplicità della sua struttura, perché Larraín ha davvero una visione, un’idea e un’ossessione. Gran Premio della giuria alla 65° Berlinale

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Un ritiro per preti “sconsacrati”, in un piccolo villaggio sulla costa cilena. Quattro vecchi parroci, allontanati dal sacerdozio per motivi di condotta più o meno gravi, deviazioni sessuali, malversazioni, inclinazioni criminali. Passano le loro giornate nel silenzio e in “penitenza”, osservando la ripetitività dei rituali, sotto l’occhio vigile di sorella Mónica, altra suora ormai “fuori dalla grazia”. L’unico interesse del gruppo, l’unico aggancio con la vita vera è costituito da un cane, uno splendido levriero, che allenano con dedizione per le corse. Per il resto, tutto sempre uguale, finché l’arrivo di un altro padre derelitto e di un folle al suo seguito, Sandokan, non sconvolge gli equilibri.

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il club  LarraínDopo il trittico sulla dittatura, concluso con il superbo No, Pablo Larraín insiste nella sua missione di indagare e smontare i meccanismi del Potere: i modi del suo manifestarsi e imporsi, le regole e le tecniche di controllo, le strategie di difesa, le misure estreme di sicurezza. Quasi fosse alla ricerca di uno sguardo foucaultiano, fa passare il suo discorso politico sui corpi (e i cadaveri), per concentrarsi sulla dinamica dei loro gesti, sulla registrazione impassibile dei movimenti, su tutti quei rapporti che riaffermano la radicalità delle solitudini, sui legami tra i soggetti e gli spazi, che trasformano le case in prigioni, le prigioni in cliniche e le cliniche in rifugi. Un discorso innanzitutto sugli individui, quindi, e poi sulla trama delle relazioni sociali e delle istituzioni. Ma tutto questo, finora, trovava una ragion d’essere in riferimento alla dittatura di Pinochet, quasi l’ingombro di quella Storia drammatica fosse, paradossalmente, anche un ombrello protettivo, capace di relativizzare la perversione di queste dinamiche. Qui, finalmente, Larraín si smarca da qualsiasi contesto, per rinchiudersi nella clausura forzata di questa congrega di con-dannati. E la storia che imbastisce, insieme agli sceneggiatori Guillermo Calderón e Daniel Villalobos, assume le dimensioni dell’apologo, della parabola al di là degli stretti limiti del tempo. Qui c’è la Chiesa cattolica, quella dei preti pedofili e dei farabutti, quella degli scandali taciuti e delle inchieste insabbiate. Ma è solo un accidente. Il Potere, allora, diviene una specie di sostanza pura, quasi un’entità metafisica che prescinde dalle forme delle sue manifestazioni, dalle scelte dei suoi emissari, dagli scarti dei suoi processi. È una cosa che trova da sé, in sé, le sue ragioni d’essere, i modi per autoalimentarsi, autoassolversi e sopravvivere. Da Foucault a Hobbes…

il club LarraínLa liberazione che sembrava promessa alla fine di No mostra tutta la sua illusione, la sua evanescenza. E la cupezza, che è da sempre la dimensione più evidente del cinema di Larraín, arriva a livelli insostenibili. Fino a fare male, fino ad avvolgere dal profondo la materia stessa del mondo, a partire dalla grana delle immagini, da quella specie di patina polverosa della fotografia che ricopre ogni cosa, rendendo quasi indistinguibili i grigi e i neri del cielo, del mare e della terra. Ecco, Il Club mostra una potenza cinematografica disarmante, nonostante l’apparente semplicità della sua struttura e della sua grammatica, perché Larraín ha davvero una visione, un’idea e un’ossessione. Teorizza, ma solo a partire dalla densità degli eventi. Per lui, la tensione sale dal nulla, come fosse vapore prodotto dalla terra, umidità sospesa nell’aria, un po’ come avveniva per il Mungiu di Oltre le colline. Da ogni angolo sembrano sprigionarsi mille riferimenti e suggestioni, Buñuel, il millenarismo ironico e disperato di Ferreri, i gorghi folli di Bellocchio. Ma i suoi film hanno una logica interna che segue una linea personale coerente, un percorso macabro, come una specie di viaggio terminale nella notte. Cosa che diviene ancora più evidente se si considerano anche i titoli da lui prodotti, a cominciare dal 4:44 di Ferrara, fino a Nasty Baby di Sebastián Silva (altro film visto qui a Berlino, per certi aspetti molto simile, pur se irrisolto nel suo schematismo moralista). Eppure, nonostante le tenebre, c’è ancora qualcosa a cui aggrapparsi. Nonostante ci sia qualcosa di programmatico nella durezza estrema delle situazioni, Larraín non ha l’algida geometria della disperazione del Pasolini di Salò. Mantiene una fede devota in una specie di residuo vitalismo, di attaccamento alla pelle, alla materia sordida, fangosa, eppure incandescente delle emozioni. La parabola si fa ambigua, perché deve fare i conti con il cuore profondo, con le paure e i bisogni, con le debolezze fisiche e morali. “Cosa può dare un cane a questa casa?” incalza padre García. “Affetto” ribatte padre Vidal, con una semplicità in cui convivono malattia e purezza. Affetto. Probabilmente non basta come risposta, non basta per il paradiso. Ma è tutto ciò che abbiamo.

Titolo originale: El Club

Regia: Pablo Larraín

Interpreti: Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking

Distribuzione: Bolero Film

Durata: 98′

Origine: Cile 2015

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