"Il Codice Da Vinci", di Ron Howard

Dal best-sellers di Dan Brown, uno degli eventi più attesi si rivela come una grande delusione e rappresenta il film meno ispirato di Ron Howard. La visionarietà non è vibrante come in "A Beautiful Mind" ma meccanica, così come gli squarci nel passato ricreati al digitale. Dello sguardo di questo grande cineasta alla fine c'è ben poco

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Il romanzo di Dan Brown ha rappresentato un autentico caso letterario ed era prevedibile, già dal successo di vendite, che Hollywood ne avrebbe fatto un film. Ron Howard e Brian Grazer, con la loro casa di produzione (la Imagine Entertainment) hanno forse colto l'occasione al volo soprattutto perché il cineasta hollywoodiano è reduce dai due pesanti flop commerciali di The Missing e Cinderella Man.  La versione cinematografica di Il Codice Da Vinci avrà quasi sicuramente un grande riscontro al botteghino. Si tratta però anche di uno dei film più deludenti e meno personali del grande cineasta statunitense. Forse il romanzo di Dan Brown ha una struttura 'cinematografica' più da un punto di vista teorico che pratico. Se infatti le circa 500 pagine del romanzo avevano una scrittura visiva anche nelle sue ridondanze, il film di Howard stranamente perde consistenza proprio sulla parte poliziesca, quella della fuga senza fine dello studioso Robert Langdon – interpretato da Tom Hanks, diretto per la terza volta dal regista dopo Splash. Una sirena a Manhattan e Apollo 13 – e della crittografa della polizia Sophie Neveau (Audrey Tatou). Si entra dentro una dimensione oscura dentro Il Codice Da Vinci ma ciò avviene in maniera insolitamente fredda e non con quella potenza visionaria di A Beautiful Mind dove sembravano crearsi più vite parallele, reali e/o oniriche. Eppure l'utilizzo dello spazio poteva ampliare questa dimensione da incubo, con una mutazione del set che va da Parigi a Londra alla Scozia, con l'architettura del Louvre che poteva costituire quasi un luogo senza uscita dove i dipinti e le anime dei defunti potevano riprendere vita. Invece la ricerca del Graal si trasforma in un percorso confuso, dove la velocità degli eventi non è direttamente proporzionale a quella del film. Al contrario Il Codice Da Vinci appare un'opera chiusa nella sua immobilità dove la sceneggiatrice Akiva Goldsman (che ha già collaborato con Howard per A Beautiful Mind e Cinderella Man oltre ad aver lavorato con cineasti come Schumacher, Proyas e Harlin) ha come paura di 'perdere' gli episodi importanti del romanzo e li condensa confusamente dentro le due ore e mezza di durata. Alcuni eventi decisivi, come la rottura tra Sophie e il nonno (l'uomo trovato ucciso nel Louvre) sono appena mostrati come un flash istantaneo, segno di come il film non abbia voluto tradire il libro di Brown. Ma questa necessità di mostrare tutto ha clamorosamente anestetizzato la tensione, oltre a cedere in modo netto nella rappresentazione dei simboli misterici.

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Il Codice Da Vinci apre flashback sul passato. Su quello privato di Sophie (l'incidente d'auto dove sono morti i genitori,), quello di Silas (il suo incontro con il vescovo Aringarosa), su quello storico (la vicenda dei Templari) dove l'uso del digitale, anche nella raffigurazione dei dipinti, priva l'opera della sua anima, quella che invece ha sempre avuto il cinema di Ron Howard. Resta soltanto qualche squarcio dove si rivede appena lo sguardo del cineasta: il momento in cui Sophie si avvicina e accarezza il cadavere del nonno e il finale, dove il cineasta mostra Langdon perso tra giochi di luce, vetri e prismi. Momento disorientante ma minimo, insufficiente dove gli stessi attori, da Tom Hanks ad Audrey Tatou, appaiono piuttosto a disagio, sintomo di come stavolta la commistione del cast francese/statunitense ma anche linguistica si sia rivelata fallimentare.

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