"Il critico cinematografico è un nichilista… quasi quanto il digitale" – Incontro con Enrico Ghezzi e Massimo Causo

"Se proprio si deve scrivere, allora non si può non scrivere di cinema" è la confortante dichiarazione, per gli allievi del Corso di Critica, cullati dalle parole di un Ghezzi stagliato davanti allo sfondo bianco dello schermo cinematografico del Cineclub Detour. Resoconto in prima persona di un incontro della Scuola di Cinema Sentieri selvaggi

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Massimo Causo: “Ma allora, Enrico, in fin dei conti, cos’è per te un critico?”

 

Enrico Ghezzi: “Eh…come faccio a dirlo con te presente?”

 

 

Davanti a questa domanda ‘cruciale’ di Massimo Causo, convinto difensore della figura del critico-superuomo (proiezionista, direttore della fotografia, regista…) – come scherzosamente ribattezzammo questa figura di ‘tuttologo cinematografico’ in una delle prime lezioni del Corso di Critica – Enrico Ghezzi ferma per un attimo il suo stream of consciousness verbale, dichiarando di non poter rispondere alla questione perchè postagli da quello che Federico Chiacchiari la prima volta ci presentò come il ‘critico-modello di Sentieri Selvaggi‘. Non sapremo mai allora cosa stesse per rispondere il padre di Blob, Schegge, Fuori Orario, ma probabilmente l’abbiamo intuito più volte, nel corso dell’incontro con Enrico Ghezzi di venerdì sera al Detour. “Se proprio si deve scrivere, allora non si può non scrivere di cinema” – confortante dichiarazione, per noi allievi del Corso di Critica, cullati dalle parole di un Ghezzi stagliato davanti allo sfondo bianco dello schermo cinematografico del Cineclub: meno spiazzati, probabilmente, noi aspiranti-critici, dal discorso ghezziano, di quanto lo possano essere rimasti gli allievi degli altri corsi di Sentieri – infatti: “trovo demente che esistano i montatori”; “è assurdo che ancora oggi per permetterti di fare un film tu debba fornire una sceneggiatura“; “a 15 anni tutti vogliamo fare i registi…penso che un bambino a quell’età dovrebbe entrare in un cinema e buttare una bomba in sala – facendo solo feriti, ovviamente”; eccetera eccetera – seppure: “credo che l’idea perfetta di critico sia un bambino di tredici anni che non ha ancora visto neanche un film, nè la televisione”…anche se sono (truffautianamente?) “minimo 1200″ i film da vedere prima di poter pensare di poter fare i registi.

“Mi scusi, Ghezzi, ma quando Lei parla del futuro digitale del cinema, ne parla come possibilità affascinante o come anatema nonsoche?” (mi scuso io, soprattutto con lei, ma non ricordo bene com’era l’anatema nella domanda posta da una corsista…in realtà non ricordo perfettamente neanche le risposte e le affermazioni di Ghezzi e mi sto affidando alla mia memoria, ma se un minimo del suo pensiero mi è rimasto in innumerevoli notti di fuori sincrono e altrettanti occhi doloranti davanti a pagine scritte fitte fitte, immagino che Ghezzi non se la prenderà…) “Beh…entrambe le cose.” “Quindi lei si autocontraddice…” “Sì, ma se il cinema non è proprio questo…“. Ecco: ce l’abbiamo tutto qui, se vogliamo, il ri-autore Ghezzi, come ama firmarsi ultimamente, rigorosamente con iniziali minuscole (e quindi mi scuso, nuovamente, per tutte le maiuscole sparse tra queste righe), il regista di Gelosi e contenti e di possibili tante altre cose, nonostante “sia diventato molto più facile realizzarle per cui me n’è passata la voglia, seppure è molto più probabile a questo punto che le faccia”. Tra il digitale (l’ ‘acqua finta’ di Von Sternberg) e Nietzsche è allora davvero mimima la distanza, e “Bergman come tematiche lo trovo terribile, pessimo…ed è per questo che è un regista straordinario”. Bogdanovich: “poverino, quello è uno che ci ha dato delle interviste incredibili con gente come Welles, Bergman, e poi si è ritrovato ad essere un regista più che mediocre”.

Ripensavo a tutto questo e ad una cosa meravigliosa che, parlando dell’effettiva importanza del regista quando si dispone di tutte le ‘professionalità’ del set (proprio come ne avevamo discusso settimane prima con Demetrio Salvi al Laboratorio), aveva detto su Walsh e ‘l’autorialità‘ (ma che come tutte le più belle cose ho dimenticato – la visione di Enrico Ghezzi bloccato come Hrundi Bakshi in una a suo dire noiosissima festa parigina deve avermi deconcentrato…), e sorridevo come la visione subacquea de L’Atalante che per tutti noi rappresenta ormai il videoclip di Because the Night, al freddo di via Urbana, in piedi davanti alla porta del Detour, qualche minuto dopo la fine dell’incontro, solo, con gli amici del corso andati via o rientrati a vedersi Monokone, e Ghezzi impegnato a conversare con Massimo Causo e Federico Chiacchiari nella saletta d’entrata…Enrico Ghezzi: una delle ragioni principali per cui da grande voglio fare il critico cinematografico (e voglio scrivere su Sentieri Selvaggi!!). “Mi parte il treno”, ho pensato guardando l’ora, e incamminandomi verso la stazione nella sera romana. E poi: “Com’era quella storia su Corman e l’LSD?…Ah, sì…”

 

 

“A quel punto l’acido arrivò. Passai le sette ore successive immerso nel più bel trip che si possa immaginare. Ero sicuro di aver inventato una nuova forma d’arte. Questa nuova forma d’arte era l’atto stesso di pensare e creare, e non servivano libri, film o musica per comunicarla; chiunque volesse sperimentarla doveva semplicemente stendersi a terra con la faccia in giù, in qualsiasi luogo del mondo, e l’opera d’arte si sarebbe trasmessa attraverso la terra dalla mente del creatore a quella del pubblico, direttamente. Ancora oggi mi piace pensare che possa succedere, sarebbe meraviglioso. Penso a tutti i costi che abbatterebbe, anche soltanto di produzione e distribuzione.”

 

Roger Corman, Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro

 

 

 

 

 

Sergio Sozzo

 

(allievo del Corso di Critica Cinematografica 2005/2006 della Scuola di Sentieri selvaggi

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