Un maledetto dubbio su Paul Thomas Anderson

Phantom Thread è quasi unanimemente considerato il capolavoro dell’anno. Ma quanto potrà esserci utile nel XXI secolo?

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Forse non dovrei scrivere questo articolo. Ma mi trovo costretto a farlo come piccola terapia per capire meglio cosa sta succedendo tra me e Paul Thomas Anderson. Da diverse settimane le bacheche social di amici e colleghi sono cosparse di esaltazioni e di fotogrammi di Il filo nascosto (Phantom Thread). Le riviste di settore affrontano il film con approfondimenti, analisi e recensioni entusiastiche. Per quasi tutti è il film dell’anno. Per molti il film del decennio. I 10 fioccano nelle pagelle. Questa quasi totale unanimità mi sorprende un po’. E con questo non intendo dire che non sia un film straordinario, né polemizzare con nessuno, in quanto – voglio essere chiaro – anche a me, per certi versi, è piaciuto Phantom Thread. Penso, ad esempio, che sia il risultato più lucido e compiuto di Anderson e che nel suo fondere melodramma e horror sia senza dubbio il film definitivo sul rapporto di coppia. Eppure, allo stesso tempo, c’è qualcosa che mi mette a disagio nella sua perfezione cristallina, nel suo essere oggetto lunare e fuori dal mondo (e dal tempo) che conosciamo. È come se ormai ci fosse troppa distanza tra noi e PTA, regista che fino a There will be blood ammetto tranquillamente di aver amato alla follia. È l’esatto opposto di quello che mi succede con quei cineasti che in questi ultimi 10, 15 anni mi scopro amare sempre di più proprio per la loro fragile e illuminata transitorietà e contemporaneità, come ad esempio Jia Zhangke, Olivier Assayas, Michael Mann, Steven Soderbergh, Marco Bellocchio. O anche gli ultimi, per me straordinari, film di Luca Guadagnino e Denis Villeneuve.

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Sarà una mia lettura di superficie ma oggi nel cinema di Paul Thomas Anderson non riesco a vedere nulla di urgente e contemporaneo. E nemmeno di emotivamente stimolante. Sembra assurdo dirlo di un cineasta che ha meno di 50 anni, ma i suoi film mi appaiono sempre più senili e mortiferi. Non credo sia un cinema freddo. The Master, Inherent Vice e Phantom Thread mi sembrano anzi film molto personali e cupi. E per certi versi riflettono un percorso autoriale sempre più rigoroso ed “europeo”. Forse ho semplicemente dei problemi con la strada che ha intrapreso.  Nel 2012 da Venezia scrissi uno strano pezzo su The Master, in cui farfugliavo di una “impronta concettuale in cui le immagini e il loro mondo finiscono col diventare elementi superflui rispetto all’Idea”. Era evidentemente un problema mio visto che la stessa rivista per cui scrivo da sempre decise, mesi dopo, di dedicare al film un appassionato speciale. Il punto è che dopo sei anni e un altro paio di titoli all’attivo Anderson mi sembra un autore sempre più razionale, programmatico, claustrofobicamente chiuso nel suo mondo. Come giustamente segnala anche Luigi Abiusi, non riesco nemmeno più a capire se ami davvero i personaggi che racconta (cosa che nei più ingenui ma viscerali Boogie Nights e Magnolia mi appariva maggiormente evidente).

BQ5A9532.CR2Ho la sensazione che Phantom Thread possa essere solo ammirato. Chiede continuamente una forma di rispetto e di attenzione, dando in cambio una grandezza che non vuole essere abbracciata, ma esclusivamente venerata. Instaura un rapporto di alterità con lo spettatore che è molto novecentesco, letterario, analogico. E in questo mi rendo conto come il cinema di Paul Thomas Anderson si sia sempre sviluppato in un sentiero intimamente conservatore. In questo racconta molto bene un conflitto generazionale che non riguarda soltanto lui ma molti cineasti suoi coetanei, come anche noi critici e spettatori che a volte sembriamo i primi a non saper come affrontare l’interattività e la performatività dei tempi e delle immagini che stiamo vivendo. Finiamo così, costantemente desiderosi di un cinema di serie A, con il rifugiarci ora nostalgicamente ora in modo morboso nelle collaudate trincee delle politiche degli autori, del classico, della sala e della pellicola (i celebratissimi 70mm di The Master e The Hateful Eight, come l’imax di Christopher Nolan!).

Per quanto mi possa interessare quello che dice, un’opera come Phantom Thread nelle sue geometrie estetiche, narrative, recitative, e cinefile, intercetta tutta la costruzione, tutta la “fatica” del cinema che oggi, in un film, non vorrei mai vedere.  Ma tralasciando questo, restano alcuni dubbi profondi che esulano persino il giudizio sulla genialità dell’opera o del suo autore. Come possiamo usare oggi un film come Phantom Thread? Può essere sufficiente la sua meravigliosa (e passiva) contemplazione? Quanto ci sarà utile Phantom Thread nel XXI secolo? Ci piace perché NON può esserci utile?

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    3 commenti

    • La cosa che mi stupisce quando leggo certi commenti è che pure io avevo trovato The Master un film asettico e celebrale, ma ho visto in questo Phantom Thread un film con un cuore immenso capace di arrivare oltre la patina superficiale, apparentemente fredda e distante. Non l’ho trovato affatto un film “da ammirare e basta”, come ho letto in giro. Mi ha trascinato e avvolto durante tutta la sua visione. Qui penso entrino in gioco le percezioni soggettive di ognuno, alla fine dei conti.

    • quindi un film che ti piace, non ti deve piacere. Interessante.

    • Ah che sollievo! Pensavo di essere la sola persona al mondo a non essere riuscita proprio a vedere in Phantom thread “nulla di urgente e contemporaneo”. E purtroppo, a non essere riuscita a provare verso la storia e i personaggi null’altro che estraneità, estraneità fino alla noia. E pensare che ammiro così tanto sia Anderson, sia Day-Lewis!