Il mago di Oz, di Fleming, Cukor, LeRoy, Taurog e Vidor

Torna oggi al cinema grazie alla Cineteca di Bologna, restaurato in 2D e 3D, un Classico senza tempo che ha dato vita a un immaginario fantastico e iconico

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Uno dei giudici più importanti nel decretare l’effettiva riuscita di un film è il Tempo, non solo perché crea uno scarto tra l’oggetto-cinema e il pensiero – tale da permettere considerazioni meno legate alle emozioni del momento –, ma soprattutto perché superare la sua prova è sinonimo di bellezza intoccabile, immortale. Dopo più di 75 anni, Il mago di Oz si è conquistato un posto speciale nell’olimpo dei Classici, entrando nelle classifiche di tutto il mondo e diventando parte integrante della cultura popolare, non solo americana. Le ragioni di questa consacrazione sono molte ed è proprio dal loro insieme e dal loro combinarsi in modo a volte casuale che si è venuta a creare la formula alchemica che ha dato vita a un immaginario fantastico e iconico, fuori dal Tempo appunto.

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Da dove iniziare quindi se non dal cuore del film, perché di cuore inevitabilmente si parla quando si ascolta Judy Garland intonare Over the Rainbow nella sua fattoria del Kansas: un brano intenso, malinconico e insieme pieno di vita, che racchiude nella descrizione di un mondo utopico (“dove i problemi si sciolgono come gocce di limone”) sogni e aspirazioni a un’esistenza diversa, migliore, lontano dal cortile di casa, in qualche posto non ben definito che si trova oltre l’arcobaleno. Accanto a una lettura storica del suo significato, che è poi quello del film in generale (siamo nel 1939 durante la Grande depressione e con un conflitto alle porte), è interessante riflettere sulla sua modernità che per una questione sempre temporale all’epoca non venne recepita: l’intera sequenza rischiò di essere tagliata perché secondo i produttori esecutivi rallentava il ritmo della storia (fu il celebre paroliere e produttore Arthur Freed a opporsi all’idea).

Over the Rainbow è in fondo una canzone universale che ieri come oggi si lega indissolubilmente allo spettatore e continua a

oz6echeggiare nella sua mente stabilendo un raccordo empatico tra lui e la protagonista: il viaggio di Dorothy lungo il sentiero di mattoni gialli è un viaggio all’interno di noi stessi; un percorso di ricerca, consapevolezza e accettazione di ciò che abbiamo intorno che, seppure può sembrare scontato o di scarsa rilevanza, si rivela essere di inestimabile valore (“There’s no place like home”). Un messaggio certo semplice, magari per alcuni banale, reso ancora più potente dalla scelta estetica di un dualismo cromatico: al color seppia della realtà, che riflette il grigiore della vita contadina, fanno da contrappunto la ricchezza e la brillantezza dei colori del regno di Oz. Quando Dorothy oltrepassa la soglia di casa, entrando a Oz, è il cinema stesso che manifesta la sua natura di fabbrica delle illusioni e che ci invita a varcare lo schermo e a lasciarci cullare da una ninna-nanna di immagini e visioni (“Toto, I have a feeling we’re not in Kansas anymore”).

L’utilizzo del Technicolor non era affatto scontato nel 1939: si trattava di un sistema innovativo di difficile gestione per via del suo peso e ingombro; l’ispirazione però venne da un altro inaspettato successo di due anni antecedente, Biancaneve e i sette nani, primo lungometraggio d’animazione di Walt Disney. Nonostante Il mago di Oz non abbia animazioni (all’inizio si pensò di animare il Leone), esso presenta diverse affinità con il film disneyano. Al di là degli elementi comuni di origine fiabesca (l’eroina, la strega, i nani/Munchkin), non si può non sottolineare, visto il genere, la funzione della musica: sia qui che in Biancaneve, infatti, le sequenze cantate non sono semplici numeri di intrattenimento; esse servono a introdurre i personaggi, a spiegarne il carattere e, in sostanza, a far avanzare la narrazione. Questa fluidità del racconto, unita a canzoni memorabili e a coreografie elaborate, fanno del Mago di Oz un punto di passaggio imprescindibile per i musical successivi.were-off-to-see-the-wizard-1

Dal cuore del film saliamo al cervello, alla mente ideatrice di questo glorioso spettacolo che si chiama Cinema. Spesso in un’opera si tende a ricondurre lo sguardo d’insieme alla figura del regista o a catalizzare l’attenzione sull’attore principale. Ne Il mago di Oz (come nella filmografia disneyana) è impossibile attribuire una paternità unica e univoca: abbiamo L. Frank Baum, l’autore letterario dei vari racconti; la troupe di registi che si susseguirono nelle diverse fasi di lavorazione, da Victor Fleming, accreditato nei titoli di coda, che poi dovette abbandonare il set per dirigere Via col vento, a King Vidor che girò, tra le tante, la sequenza di Over the Rainbow; un nutrito cast di attori, da una Garland ancora un po’ acerba a un’incantevole Billie Burke (Glinda, la strega buona del Nord) nel pieno della sua maturità, per non parlare della performance trasformista di Frank Morgan (un prototipo del Peter Sellers kubrickiano); e poi ancora sceneggiatori, costumisti (il raffinato Adrian che con le sue creazioni ha dettato la moda negli anni ’40), scenografi, artisti degli effetti speciali…

Il successo de Il mago di Oz si deve quindi a un lavoro collettivo, di natura squisitamente artigianale, e al coraggio di rischiare (scegliendo ad esempio la Garland invece della famosa Shirley Temple). Del resto l’eredità che ha portato con sé è testimoniata, tra le altre cose, dai tantissimi prodotti televisivi, cinematografici e teatrali che si continuano a fare. Senza entrare specificamente nel merito, ci sembra giusto ricordarne almeno tre che hanno assunto a loro modo il ruolo di cult. Stiamo parlando di Return to Oz, sequel non ufficiale della Disney, che si discosta dal musical MGM per le sue atmosfere cupe e inquietanti: bisogna ricordare che era il 1985, un periodo di sperimentazione per gli Studios; lo stesso anno uscì un altro outsider: Taron e la pentola magica. Il secondo è The Wiz (1978), la versione black dell’eclettico Sidney Lumet, che trasporta la storia in un contesto urbano e industriale seguendo la scia di due astri musicali come Diana Ross, nei panni di Dorothy, e Michael Jackson in quelli dello Spaventapasseri. E infine, l’omaggio sincero di Sam Raimi che, attraverso la figura del mago incantatore e truffaldino (James Franco), torna dove tutto è iniziato, alle origini del Cinema, ripercorrendo quella strada fatta di mattoni gialli e vivide illusioni.

 

Titolo originale: The Wizard of Oz
Regia: Victor Fleming, George Cukor, Mervyn LeRoy, Norman Taurog, King Vidor
Interpreti: Judy Garland, Frank Morgan, Ray Bolger, Bille Burke, Amelia Batchelor
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 101′
Origine: USA, 1939

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.5 (4 voti)
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