Incontro con Francesco Munzi. Un cinema di archetipi. PARTE 1

Giovedì 3 dicembre il regista romano Francesco Munzi ha parlato con gli studenti e gli insegnanti di Sentieri Selvaggi del suo cinema a partire da Saimir (2004), fino all’enorme successo di Anime Nere

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Giovedì 3 dicembre si è svolto a Roma presso la nostra sede di Sentieri Selvaggi l’incontro tra il regista Francesco Munzi e gli allievi e insegnanti di Sentieri Selvaggi, condotto da Simone Emiliani. A partire dal film di esordio Saimir, fino al successo internazionale di Anime nere, Munzi ha approfondito i suoi gusti cinematografici, la sottotrama latente che si rifà agli archetipi in tutti i suoi film, e l’importanza dei colleghi e sodali come Giuliano Taviani, Vladan Radovic e Gianluca Arcopinto.

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– Le difficoltà incontrate per il suo primo film (Saimir – 2004)

Il primo film è sempre il più faticoso, anche se ogni film è sempre il primo, si gioca sempre su una terra vergine. Saimir è nato come progetto subito dopo il Centro Sperimentale, dove sono uscito nel 1999. Anche se devo dire che all’epoca fare film era molto più facile. Io mi definisco un documentarista mancato, parto spesso con l’intenzione di fare un documentario, poi faccio film. È successo così anche per Saimir, ero partito con l’idea di fare un documentario nel campo rom di Casilino 900, dove c’era anche una bella storia, uno scontro padre-figlio, c’era tanto materiale, persone stupende, molto aperte. Poi però quando iniziavo a girare il mezzo li inibiva, si auto censuravano, quello che dicevano e come lo dicevano faceva sembrare le riprese dei pezzi da telegiornale. Mi stavo intestardendo su un documentario che non mi veniva, ma in questo modo ho avuto la chiave per il progetto di quello che poi è diventato Saimir.

Anche se ai primi anni 2000 trovare produttori era più facile, all’inizio tutti mi hanno detto di no, la RAI non solo rifiutò il mio progetto, ma mi sconsigliò addirittura di proseguire, dissero che sarebbe stata la fine della mia carriera. Inizialmente c’erano tutti gli ingredienti perchè il film fosse un disastro totale. Ma io penso che l’unico modo sia seguire progetti che piacciono. La tigna mi ha premiato, e per fortuna all’epoca c’erano ancora fondi dignitosi. Non ho avuto un grande successo al box office, ma il successo di critica mi ha permesso di continuare la carriera.

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– Saimir fu girato in albanese, unendo attori non professionisti e professionisti. Come funziona questo dialogo? Quanto conta l’uso di un linguaggio diverso?

Mi incuriosiva raccontare realtà diverse, situazioni e persone che neanche io conoscevo, la lingua albanese non è una scelta estetica ma una naturale conseguenza del racconto. A me piace il realismo al cinema, quindi la scelta mi è sembrata qualcosa di ovvio. Mi annoia parlare del mio mondo, non mi sembra una cosa da portare al cinema, ma sono ignorante degli argomenti che racconto, e per girare ho bisogno degli aiuti esterni, come di professori o degli stessi attori non professionisti. Cercando delle realtà lontane, cerco sempre persone che hanno vissuto cose simili a quelle che mostro nel film, poi le metto insieme con attori da fiction. Per farlo la preparazione prima del set è essenziale, faccio sempre in modo di farli incontrare prima di girare. Sul set non hai tempo per i ripensamenti, l’importante è il lavoro che si è fatto prima. Oltre al lavoro con gli attori, una sicurezza per me è data dall’avere sempre la stessa troupe. Ci sono persone con cui ho un enorme rapporto, figure importanti di cui so di potermi fidare, come Giuliano Taviani per le musiche, e anche Gianluca Arcopinto e Vladan Radovic come direttore della fotografia. Sia per me che per Vladan Saimir è stato il primo lungometraggio, quindi si può dire che cinematograficamente siamo nati insieme, cresciuti insieme. Quando lavora con me Giuliano Taviani si frustra perché vorrebbe mettere sempre molta più musica ma io lo freno, mentre invece Vlada sa che con me può fare cose spregiudicate, forti contrasti ecc, perchè noi due abbiamo gusti simili. Su suo suggerimento usammo la pellicola per Anime Nere, ma nel mezzo delle riprese chiuse la Kodak. Quindi abbiamo continuato a girare “sporcando” l’immagine digitale. Alla fine anche lui faceva fatica a distinguere pellicola e digitale. Il digitale a volte fa un bruttissimo effetto, può creare immagini veramente squallide, ma si risparmia tempo e denaro, bisogna giusto lavorarci di più.

– Cinema dal forte realismo e fisicità, che a volte ricorda quello dei fratelli Dardenne.

Non è una ricetta, cerco a fatica di mettere insieme tutti gli elementi che creano un film. È essenziale che la sceneggiatura sia scritta bene, sia precisa, poi compongo il film con libertà. Il mio è un metodo empirico, istintivo. Scrivo sempre la sceneggiatura chiedendo al produttore di lasciarmi uno spazio tra la preparazione e il set, in questo modo la posso cambiare, resettare a seconda di quello che ho trovato realmente durante le prove. La scenggiatura deve insomma aderire a quello che ho trovato: corpi, luoghi, luci…

– Cinema che non teme i momenti di silenzio

Per me il silenzio non è mai un vuoto, è sempre un pieno. Io sarei per un cinema muto, per me il cinema è fatto di corpi, ero molto preoccupato per il fatto che Anime Nere avesse molti più dialoghi dei miei film precedenti. Naturalmente nei momenti di silenzio è molto importante avere in mente cosa vuole esprimere il personaggio. Ci sono molti film brutti che si affidano totalmente al dialogo per portare avanti la storia, ma questo si nota e il tentativo fallisce, il film risulta non riuscito. Secondo uno studio, lo spettatore non registra l’80% di quello che sente, invece percepisce principalmente l’aspetto visivo. Per me se una cosa ha senso va detta in tre parole. Questa sarebbe una lezione per gli sceneggiatori che scrivono dialoghi di venti righe. Come fa il povero attore a impararle? ilrestodellanotte_3

– In tutti e tre i film è importante il rapporto padri-figli. Come ti concentri sui rapporti familiari?

Mi piace trovare vari livelli nelle storie. In maniera non razionale vado sempre a sbattere con gli archetipi, cerco sempre temi ampi filtrati da storie personali. In Saimir e Il resto della notte è il rapporto padri-figli, in Anime Nere c’è anche il rapporto tra fratelli, tutti elementi del mito. Il mio libro dorato d’altronde è l’Odissea, la conservo dalla terza elementare, la prima volta in cui l’ho letta. Anche se scelgo temi come “la mafia” o l’immigrazione, vado sempre a stringere sui personaggi e cerco questa loro relazione. In Il resto della notte (2008), il padre rappresentato da Stefano Cassetti è completamente perduto. Il suo è un ruolo completamente negativo e disperato, è un padre totalmente respingente, che non riesce a fare suo il figlio. In Saimir mi ero immedesimanto molto con il personaggio del figlio, mentre in Anime Nere mi sentivo molto il padre.

– Da Il resto della notte in poi, il noir sembra una cifra ricorrente: molti esterni e molte scene girate di notte. Elemento stilistico molto diverso dal resto del cinema italiano.

A differenza di molti miei colleghi, io amo girare in esterni e di notte. Per farlo devo per forza inventarmi qualcosa, altrimenti risulterebbe impossibile girare nel buio più assoluto, ad esempio in aperta campagna di notte, senza l’aiuto della luce diffusa come farebbero per altri film. Cerco ambienti illuminati da lampioni, che mantengano l’effetto notturno ma spezzino il nero. In questo ho la fortuna di lavorare con Vlada, perchè abbiamo gusti simili, e anche se il direttore della fotografia non è il mio mestiere, sà che non mi può fregare… Come ho già detto, ma la mia base di partenza è il realismo, quindi per girare scene di notte bisogna inventarsi qualcosa che illumini: nelle produzioni normali illuminerebbero tutto a giorno con un enorme lampione irrealistico. Io e Vlata invece cerchiamo ambienti in funzione della fotografia, partiamo sempre da una base che sia dentro l’inquadratura.

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