inizioPartita. Siamo tutti preda dell’obsolescenza…

Diamo uno sguardo alla più comune “strategia” pianificata dai produttori per indurre l’utenza al ricambio integrale dei prodotti tecnologici di consumo…

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Vi è mai capitato di comprare uno spazzolino elettrico, di quelli ricaricabili? (…e non faremo nomi di brand dell’elettronica di consumo, altrimenti mi si potrebbe accusare di pubblicità negativa)

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Vi siete mai accorti che, una volta che le batterie ricaricabili hanno terminato il loro ciclo vitale, proprio per quegli stessi spazzolini elettrici non è possibile ricorrere ad alcuna forma di sostituzione di tale componente?

Non è quindi possibile sostituire le pile, con il risultato che, se si vuole continuare a spazzolarsi i denti, si deve buttare tutto lo spazzolino “defunto” (…nonostante, almeno in teoria, possa funzionare ancora, dato che non presenta danni meccanici) per sostituirlo con uno nuovo di zecca.

Non sarebbe bastato progettarlo in modo da consentire la sostituzione delle pile, un po’ come è possibile fare in taluni casi con le “cornette” dei telefoni cordless (anch’esse dotate di batterie ricaricabili)? Non è uno spreco di materiali e di risorse produttive?

Ebbene sì… lo è. Ma non è purtroppo casuale.
Sappiamo che scrivendo e pubblicando questo pezzo ci attireremo un po’ di critiche, ma era ora che qualcuno vi introducesse al concetto di “obsolescenza programmata” (o “obsolescenza pianificata”, che poi è la stessa cosa). Tenete quindi bene a mente l’esempio appena fatto e continuate a leggere.

Il primo esempio storicamente accertato riguardante un tentativo di imposizione di uno – chiamiamolo così – “standard di durata con il trucco” per un prodotto tecnologico risale al lontano Dicembre 1924, quando il Phoebus cartel, costituito dai maggiori produttori di lampadine di allora (…General Electric, Tungsram, La Compagnie des Lampes, OSRAM e Philips, i quali dettero vita insieme ad un’azienda con sede a Ginevra, appunto denominata Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage, la quale aveva lo scopo di ideare e stabilire gli “standard qualitativi” cui i vari produttori si sarebbero da allora dovuti attenere), decise che per una lampadina poteva bastare una “vita utile” di almeno 1000 ore. La Seconda Guerra Mondiale fece saltare questo accordo nel 1939, ma nel frattempo la durata media di una lampadina si era effettivamente di molto abbassata, e ancor oggi facciamo le spese delle decisioni prese nel ’24 dal Phoebus cartel.

Perché se 1000 ore, 2000 ore, o 3000 ore vi sembrano tante per una lampadina, sappiate che, in linea teorica, prima del 1924 le stesse erano progettate e costruite per avere una durata indefinita nel tempo. E, pur avendo un basso rendimento luminoso rispetto a quelle attuali (la tecnologia era quella di un secolo fa, più o meno), duravano davvero molto di più.

Per la serie: "Le cose fatte bene durano per molto tempo..."

Questa è una foto della Centennial Light. Per la serie: “Le cose fatte bene durano per molto tempo…”

 

L’esempio più eclatante viene da una caserma dei pompieri di Livermore, dove una vecchia lampadina dell’ante-guerra, chiamata giustamente Centennial Light, è accesa da più di 116 anni, alla faccia del Phoebus cartel e di tutti gli industriali furbastri che si sono arricchiti con le lampadine fulminate da sostituire (…e come la mettiamo adesso che siete venuti a sapere che non è sempre colpa dell’usura, del tempo che passa o degli sbalzi di corrente causati dall’Enel?).

In alcuni casi, per ottenere una durata più lunga per un certo prodotto tecnologico bisognerebbe far ricorso a materie prime più costose, ciò determinando un notevole aumento del prezzo finale del bene da acquistare, rendendone improponibile la commercializzazione alla maggior parte dei consumatori: l’industria si trincera spesso dietro questa scusa per negare l’idea che i prodotti vengano già costruiti apposta con una “data di scadenza”. Ciò corrisponde a verità, ma solamente per un numero esiguo di casi.

Nella maggior parte delle situazioni (ad es. quella di cui vi abbiamo parlato all’inizio, cioè lo spazzolino elettrico ricaricabile), la “triste dipartita” dell’oggetto tecnologico acquistato dipende più da quelli che sembrano essere ad un primo disattento sguardo degli “errori ingegneristici di progettazione”, ma che, a ben guardare, si rivelano invece come delle “strategie” pianificate dal produttore per indurre il successivo ricambio integrale del prodotto (…con conseguenti nuovi introiti). È proprio questa l’obsolescenza programmata.

Vi abbiamo fatto un esempio a caso, ma dallo spazzolino elettrico, al rasoio elettrico, al trapano, ecc… il passo è breve. E ve ne parliamo soprattutto perché la tendenza all’obsolescenza programmata è entrata a forza nel DNA delle nuove tecnologie: non vi è durata di utilizzo più effimera di quella di uno smartphone, di un tablet o di un netbook, destinati già dalla data dell’acquisto ad essere rimpiazzati dopo appena tre o quattro anni (…a volte anche meno).

Sempre senza fare nomi di noti brand, sono presenti in commercio dei laptop stilossimi, appartenenti ad una fascia di prezzo piuttosto elevata, nei quali la RAM viene saldata, come la CPU, sulla scheda madre, le batterie vengono incollate dietro la tastiera ed al touchpad, con la tastiera che viene “iper-rivettata” allo chassis, invece che avvitata; certo saranno misure prese per rendere il prodotto più resistente agli urti… peccato che se si guasta qualcuno dei componenti sopraelencati, forse conviene di più buttare l’intero laptop e sostituirlo con un nuovo, invece che tentare di ripararlo.

Anche i PC desktop, con una vita media considerata più lunga, non durano oramai più di cinque anni. Un tempo i case e le motherboard dei personal venivano costruiti in modo da poter sostenere eventuali “salti” tecnologici; i socket, cioè i connettori elettronici montati sulle schede madri, erano basati su standard condivisi dai maggiori produttori che, nonostante l’avvento di nuove tecnologie, continuavano a rimanere inalterati per diversi anni, con il vantaggio che si poteva, ad esempio, sostituire una CPU senza buttare l’intera motherboard. Adesso, ad ogni release di una nuova famiglia di processori, cambiano gli standard dei suddetti socket, per cui, se si vuole tenere aggiornato il PC, bisogna praticamente cambiare anche la scheda madre. E questo è l’esempio più facile ed immediato da fare, ma ce ne sarebbero anche diversi altri…

In uno degli scorsi articoli vi abbiamo spiegato che il mercato degli home-computer sta affrontando da diversi anni una pesante crisi, ma i produttori non possono pensare di scaricare i costi di questa crisi sugli acquirenti, costringendoli ogni tot anni a disfarsi del vecchio PC per poi comprarne uno nuovo, quando basterebbe loro aggiornare e/o effettuare una buona manutenzione su quello che già possiedono.

Pazienza se e quando un prodotto presenta caratteristiche completamente nuove e ci risulta indispensabile il suo acquisto, ma se si tratta di un semplice miglioramento di qualcosa di pre-esistente, perché non mantenere la compatibilità con ciò che è già stato commercializzato?

Purtroppo, quel che è successo negli ultimi anni è che si è passati dal comprare oggetti tecnologici perché realmente ci servono, a desiderarne perdutamente l’acquisizione perché rappresentano degli status-symbol.
Per cui, per fare un esempio, non interessa sul serio a nessuno che uno smartphone funzioni bene e lo faccia per molto tempo: l’importante è avere sempre in mano l’ultimo modello disponibile sul mercato, magari costosissimo, per far vedere agli altri che si è “cool”. E i produttori contano molto su questo impatto psicologico quando commercializzano un nuovo ritrovato tecnologico.

A pensarci bene, il noto motto “siate affamati, siate follijobsiano (passatemi questo neologismo), probabilmente pensato per attagliarsi a diverso contesto, può invero ironicamente rivolgersi anche al comportamento degli acquirenti moderni, quasi con i contorni di uno sfottò.

Ad ogni modo, l’obsolescenza programmata è un vero e proprio crimine, anche se difficile da percepire: comporta un maggiore spreco di materie prime ed inquinamento ambientale (…dato che, ovviamente, incrementa la produzione di rifiuti, che, quand’anche riciclabili, non possono mai essere recuperati al 100%).
Dico crimine, in senso lato, solo perché in Italia la legislazione non prevede ancora una fattispecie di reato collegata a tale tipologia di fatti giuridici. In effetti, in altri paesi con una tradizione democratica più “robusta” rispetto alla nostra, l’obsolescenza programmata, se dimostrata, risulta già punibile secondo legge. In Francia, ad esempio, secondo una normativa approvata nel 2015, la punizione comminabile per un tale reato consiste in due anni di prigione e ben trecentomila euro di multa.

Noi italiani ci siamo invaghiti negli anni ’80 del secolo scorso della filosofia “usa & getta” proveniente dagli U.S.A., e non l’abbiamo più abbandonata. Molti giovani d’oggi faticano perciò a capire l’utilità di poter ricorrere alla manutenzione/riparazione dei propri accessori tecnologici, e vengono pertanto facilmente “spennati” dai grossi produttori internazionali di tali beni. È inutile poi lamentarsi del prezzo troppo elevato di uno smartphone, di un tablet o di un PC. A ben vedere, è proprio questa nostra acquisita italica mentalità usa & getta ad essere divenuta obsolescente.

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