Insider – Dietro la verità, di Michael Mann

Un articolo pubblicato su “Vanity Fair” intitolato The Man Who Knew Too Much, alimenta il fuoco proprio della visione di Michael Mann. Anche Insider è un film che si genera di complicità e contrasti, di tradimenti volontari e costretti. E soprattutto ciò che avvolge in questo suo ultimo capolavoro è proprio una sorta di caos emotivo che coinvolge a livello di struttura di genere (Lowell Bergman e Jeffrey Wigand come in un western di losers, ancora Peckinpah), che invade un impianto formale che conserva una sua straordinaria classicità (Walter Hill) che rende i corpi come cellule impazzite in un contesto urbano che li avvolge totalmente (Scorsese). Conviene invece dimenticare ogni riferimento a certo cinema politico statunitense anni Settanta e soprattutto pericolosi raffronti con Tutti gli uomini del Presidente in cui potrebbero verificarsi depistanti analogie a livello di soggetto – il film di Pakula si basa sull’inchiesta fatta da due giornalisti del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl Bernstein – e a livello di sviluppo (il cuore della redazione del “Washington Post”, così come quella di “60 minuti” come nucleo di partenza da cui si irradiano i molteplici movimenti e il continuo affermarsi/negarsi di una scrittura continuamente “in fieri”). Niente di tutto questo. In Mann molte volte il soggetto è solo pretesto occasionale per produrre un cinema, che a livello di regia, sembra contenere oggi una riconoscibilità unica. In Insider, come in Heat, la sfera professionale, quella sentimentale e quella emotiva si confondono in un crescendo totale di tensione e di delirio di sensi che si innesca nella scena dell’attacco d’asma della figlia di Jeffrey Wigand (un grandissimo Russell Crowe) come nel ricatto/minaccia che Wigand subisce dai suoi ex-datori di lavoro (è stato infatti da poco licenziato dal posto di capo ricercatore e dirigente aziendale della Brown & Williamson, grande industria produttrice di tabacco). Wigand e Bergman – il reporter investigativo che ha registrato la testimonianza di Wigand per il programma televisivo “60 minuti”- sono davvero direttamente proporzionali al detective Vince Hanna e al rapinatore Neil McCauley di Heat: altri due eroi solitari che si trovano comunque su due piani diversi ma accomunati da brani di struggente complicità (Wigand che si fa accompagnare da Bergman a portare le figlie a scuola), altri due corpi coinvolti in un gioco di coincidenze in opere in cui incombe la Sorte il Caso il Destino. Personaggi allo specchio, quasi come in quella sequenza “alla Welles” di Face/Off, uguali e contrari, con germi di malessere più (Wigand) o meno (Bergman) evidente che entra anche all’interno delle mura domestiche e lascia trasparire una rabbia spesso trattenuta, prefigura attacchi d’ira che invece restano soppressi da uno stato peggiore di infelicità nascosta, di urla strozzate in gola. Le donne del cinema di Michael Mann non vivono mai ai margini dei protagonisti maschili. Anzi, l’autore statunitense possiede un’abilità impressionante nel riuscire a guardarle allo stesso modo, nel riuscire a farle dire tutto senza neanche aprire bocca. C’è un misto di tenerezza fragilità e forza dentro Joan Allen in Manhunter (che interpreta il ruolo di una cieca ma vede oltre, anche quello che gli altri non vedono grazie alla sua capacità di percepire), dentro Madeleine Stowe in L’ultimo dei Mohicani, dentro Diane Venora, Ashley Judd ed Amy Brennemann in Heat e ancora dentro Diane Venora in Insider. Mann dota i suoi personaggi femminili di un senso esclusivo, quello di poter sentire le situazioni. Senza vederle. Senza saperle. In Insider la moglie di Wigand (interpretata appunto da Diane Venora) sembra avvertire il licenziamento del marito prima di averlo saputo. E in un momento di quei grandiosi confronti/scontri cruciali circoscritti proprio nell’ambito domestico – così vivi, così esclusivi del cinema di Mann – c’è lo sguardo della moglie di Wigand (prima che il marito salga in macchina) che è un misto di disagio, di preoccupazione, di rabbia. Ancora un caos che penetra dentro corpi inquadrati in modo che le pulsioni, le reazioni istintive si vedano ancor prima che qualunque imput razionale si prenda possesso di loro. Un caos sul quale – come spesso avviene in Mann – c’è una traccia cromatica fissa resa quasi fisica dalla fotografia di Spinotti. Se in L’ultimo dei Mohicani poteva essere il rosso, se in Heat poteva essere il nero, in Insider il colore che incombe si avvicina alle tonalità del grigio. Un grigio che non separa, che elimina ogni distinzione manichea, che sposa/rifiuta le ragioni di ognuno, che pone dubbi in un cinema che sembra negarsi in ogni inquadratura – sin dall’inizio con il personaggio di Wigand che, inquadrato di spalle e con la valigetta in mano, che potrebbe associarsi a un truffatore, un ladro, un omicida, reso ancora più inquietante dalla dedizione domestica che emana dopo l’attacco d’asma della figlia – per costruire altri contrasti inserendo segni nel campo visivo. Nella telefonata tra Bergman e Wigand, per esempio (dopo che il giornalista ha saputo che Wigand ha già avuto una moglie e per un momento sembra mettere in dubbio la sua attendibilità/sincerità), si vede, nella stanza del reporter, solo la metà della scritta di un manifesto in cui compare la parola “lies”. Altre “bugie vere”, altre inquadrature che, nella loro composizione, sembrano contenere i propri ossimori per poter fingere nella costruzione di altri tradimenti che si associano a quelli già veri/presunti.
  

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Eric Roth, Michael Mann
Fotografia: Dante Spinotti
Montaggio: William Goldenberg, Paul Rubell, David Rosembloom
Musica: Lisa Gerrard, Pieter Bourke
Scenografia: Brian Morris
Costumi: Anna Sheppard
Interpreti: Al Pacino (Lowell Bergman), Russell Crowe (Jeffrey Wigand), Christopher Plummer (Mike Wallace), Diane Venora (Liane Wigand), Philip Baker Hall (Don hewitt), Lindsay Crouse (Sharon Tiller), Debi mazar (Debbie De Luca), Stephen Tobolowsky (Eric Kluster), Gina Gershon (Helen Caperelli), Michael Gambon (Thomas Sandefur), Rip Torn (John Scanlon)
Produzione: Michael Mann, Pieter Jan Brugge
Distribuzione: Buena Vista International Italia
Durata: 157′
Origine: USA, 1999

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