Isao Takahata, la Nobile Verità

Per ricordare il maestro scomparso ieri, uno stralcio del contributo pubblicato su Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata, a cura di Andrea Fontana e Enrico Azzano

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Per ricordare Isao Takahata, scomparso ieri a Tokyo all’età di 82 anni, vi proponiamo uno stralcio di Il buongusto anticipa le epoche, la tecnologia arriva a seguire, contributo originariamente pubblicato su Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata (Bietti, 2017), a cura di Andrea Fontana e Enrico Azzano, che ringraziamo per la gentile concessione

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“L’arco di durata di una vita creativa è di un decennio, il tuo decennio vivilo dando fondo alle tue forze”, consiglia l’aviatore Caproni in Si alza il vento di Hayao Miyazaki.
Ma se è vero che l’arco di durata di una vita creativa è un decennio, quanti film si potrebbero realizzare al ritmo Ghibli? Quanto sarebbe lunga la filmografia di Miyazaki? Tre o quattro titoli? Per non parlare di quella di Takahata. Un paio di lungometraggi al massimo. Forse non ci sarebbe spazio che per una sola opera, decisiva, lo sforzo concordato di tutte le energie, mentali, emotive, ideali. E poi il resto starebbe lì a far solo da commento, da chiosa o nota a margine. Un po’ come lo Zero di Jirō Horikoshi, il famigerato Mitsubishi A6M, modello di eleganza, bellezza e manovrabilità (quello che vediamo volare in Si alza il vento è il suo immediato antenato, l’A5M). Creatura eccezionale, ma destinata a dominare solo per poco i cieli della Guerra, nonostante tutte le successive versioni, gli ammodernamenti, i dettagli. La tecnologia ha una vita effimera. Del resto il suo vero scopo è di incidere nel tempo e, perciò, non può che restarne vittima. È il suo destino. Come per il cinema. E allora la lentezza è un metodo di produzione. Fino al magnifico paradosso che quanto più i mezzi tecnologici si evolvono, il reale diviene virtuale e il virtuale attuale, tanto più questo metodo si fa lento, spossante, antieconomico (La storia della principessa splendente è un progetto portato avanti da Takahata per otto anni). Sino ad assumere gli aspetti della follia. Perché lo Studio Ghibli tutto è, fuorché una casa indipendente abituata ai piccoli budget: rimane perfettamente integrata in un sistema commerciale di promozione, distribuzione, merchandising. Ma i suoi piani di lavorazione sono “fuori corso”. E allora è come se si affrontasse il mercato affidandosi ai metodi industriali del 1800: il sogno della tartaruga… Il fallimento è assicurato, ma da qui ad allora, quanta sublime bellezza può contenere l’anacronismo di questo gesto?

Miyazaki e Takahata, forse, sono davvero dei sopravvissuti. Esattamente come il povero Jirō, costretto a fare i conti con il vento che “se lève”, con la morte della donna amata e il doloroso risveglio alla realtà. Sono sopravvissuti a cinque decenni di storia dell’animazione e del cinema, ad anni e anni di innovazioni, successi e delusioni, a premi e polemiche. E ora sono arrivati a mettere la parola fine, perché sentono di non poter andare avanti. Lasciano il campo ai più giovani, Goro Miyazaki, Hiromasa Yonebayashi, pronti a ritirarsi nella perfetta calma di una solitudine ascetica. Ma la loro eredità rimane un fardello pesante, un esempio irraggiungibile. Perché la loro visione è stata nutrita dal tempo, e proprio del Tempo ha fatto il centro di una concezione drammatica e artistica splendida e dolorosissima. Perché, a dispetto di quello che potrebbe sembrare, il cinema dei maestri della Ghibli è ben lontano dalla resa all’impermanenza di tutte le cose, a quel vuoto che è il nucleo di partenza di una concezione spirituale buddhista (orientale, diremmo, con occhio vagamente colonialista). Certo vi è la consapevolezza profonda della precarietà invincibile

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di ogni cosa che si agita nel mondo, sulla superficie delle terra o negli abissi dell’anima. E per questo bene o male, nei film di Miyazaki e Takahata, sono concetti relativi, fino a sfumare nell’illeggibilità, nel tumulto delle idee e dei punti di vista. Vi è la consapevolezza, inoltre, di quanto questa impermanenza, questa transitorietà sia la radice di ogni dolore, come espresso compiutamente nella prima Nobile Verità: “la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l’unione con ciò che non ci è caro è dolore, la separazione da ciò che ci è caro è dolore. Dolore in una parola sono i cinque elementi che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza”. Ma queste consapevolezze non vogliono mai significare una pacifica accettazione, non sono mai il presupposto per il raggiungimento di uno stato ulteriore di comprensione, pace e libertà dalle miserie del mondo. “Così l’uomo… comprendendo la fine di tutto ciò che è destinato a perire, potrà riconoscere ciò che non è mai stato creato”…

No i maestri Ghibli non cercano illuminazioni e vie di salvezza, il nirvana o, ancora oltre, il superamento di tutte le concezioni, fino all’annullamento del vuoto che ritorna al vuoto… Semmai, per loro, la consapevolezza serve solo a rafforzare la volontà di combattere qui e ora, a superare il dolore, passo dopo passo. Fino al prossimo. E così via. Per continuare a vivere, per continuare a combattere in questo mondo e portarlo avanti generazione dopo generazione, nonostante i misfatti, gli errori, le paure.

In fondo, Miyazaki e Takahata sembrano sempre testimoniare la loro appartenenza a una generazione di passaggio. Hanno vissuto da ragazzi il tramonto dell’illusione imperialista e hanno costruito tombe per le lucciole. Hanno visto scomparire i vecchi valori, in nome dei nuovi. L’artigianato si è trasformato nell’industria e loro sono stati dei pionieri. Perciò il tempo, per loro, rimane davvero il problema fondamentale. “Il passato deve essere un gran peso per te”, come si sente ripetere Taeko in Omohide poro poro, altro film completamente sospeso tra la gioia dei ricordi, le incertezze del quotidiano e i sogni del futuro. Lontani dal considerare il tempo come un’altra illusione, è come se Miyazaki e Takahata vivessero costantemente su una frattura, una linea d’ombra tra l’adolescenza e la maturità, la maturità e la vecchiaia, la vecchiaia e la morte.

Ed è da questa frattura che partono tutti quei conflitti che siamo da sempre abituati a vedere nei film Ghibli. Conflitti tra libertà e autorità, tra infanzia e maturità, tra tradizione e progresso, tra l’arcadia della giovinezza e il paradiso del futuro, guerra e pace, condivisione e avidità, appartenenza e solitudine, tra i mostri e la meraviglia. Conflitti che, anziché essere sanati, diventano sempre più esplosivi, in una concezione drammaturgica e una visione del mondo e del cinema che potremmo definire occidentale (e anche in questo senso Miyazaki e Takahata sembrano essere sul confine). Al punto che La storia della principessa splendente sembra tutto giocarsi sull’infrazione costante dei limiti tra yama e sato, la montagna e il villaggio, il selvatico e il coltivato, il regno degli dei e il mondo degli uomini, confini solo apparentemente garantiti dai riti della tradizione contro cui Kaguya fa ferro e fuoco.

Ma se questi conflitti non sono sanabili, allora non resta che accettarne la verità e sfidare il tumulto. Ed ecco che un insegnamento spirituale antichissimo e radicale viene mutato di segno in un umanesimo ancora più radicale. Perché è come se da sempre questo cinema non avesse avuto in mente che un solo istante, quello in cui i sogni finiscono e la vita diviene un obbligo morale.

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