Jacques Tati, l’irregolare, l’inattuale, il postmoderno

Ritorna in sala, grazie a Ripley’s e Viggo, l’opera di Jacques Tati. I suoi film sono un vademecum che meglio di altri hanno saputo raccontare il definirsi della progressiva e spaesante modernità.

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Confusione è la parola della nostra epoca. Si va troppo in fretta. Ci dicono tutto quello che dobbiamo fare. Organizzano le nostre vacanze. La gente è triste. Nessuno fischietta più per strada (…) sarà sciocco, ma mi piacciono le persone che fischiettano per strada ed io stesso lo faccio. Credo che il giorno in cui non potrò più fischiettare per strada sarà una cosa gravissima.

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Jacques Tati

C’è più di una ragione che ci spinge alla riscoperta di un autore geniale e dimesso come Jacques Tati, c’è più di una ragione che oggi ci obbliga a ricostruire la figura di questa ombra autoriale che il regista ha creato attorno a se che permea alcuni film del presente o del recente passato, ma che, in fondo, è rimasta una figura solitaria nel multiforme panorama del cinema dei giorni nostri.
Ci accorgiamo che Tati ci ha insegnato molte cose e apprendiamo, riguardando la sua opera oggi meritoriamente salvaguardata dall’operazione della Ripley’s in collaborazione con la Viggo srl che riporta in sala la sua migliore produzione, che ha ragione Assayas quando dice che La curva che conduce da Jour de Fête a Playtime è quella che conduce il mondo antico al mondo moderno.

Giorno di festa, Tati
Il cinema di Tati ha lavorato esclusivamente su questa antinomia, come uno specchio riflettente per portare con ineguagliabile coerenza il suo cinema (e il nostro sguardo) da un mondo del passato (Giorno di festa) ad una modernità assoluta (Playtime) nella quale il passato si intravede occasionalmente e solo per una delle tante coincidenze della vita che Tati, attraverso il suo monsieur Hulot, osserva, vive e soffre. La sua figura resta nella mente: il dinoccolato personaggio con pantaloni alla zompafosso, la pipa dritta e il cappellino rivoltato è un’icona dell’umorismo gentile e discreto. Se questa figura trova la sua naturale destinazione nel cartoon/omaggio di Sylvain Choumet, L’illusionista, il suo personaggio sembra essere rivissuto in Italia lasciando qualche eredità, prima fra tutte quella di Dario Fo ne Lo svitato (1955) per la regia di un giovane Carlo Lizzani. Ma in realtà il suo cinema è andato ben oltre, permeando altre sensibilità come quella di Maurizio Nichetti, inventore di un cinema oggi del tutto assente, discreto e leggero che sapeva unire quel puro divertimento nato dallo sguardo di un imbranato ad una tagliente satira, condita di umorismo autentico, sulla nostra contemporaneità, il tutto nel silenzio della mimica e della fantasia del disegno.
Le vacanze di monsieur Hulot, TatiIl percorso artistico di Tati, cinematograficamente breve – solo sei lungometraggi portati a termine – costituisce però uno snodo necessario nella storia del cinema, avendo contribuito, con il suo lavoro, al traghettamento dell’umorismo da quella radicalità tutta mimica e silenziosa di Buster Keaton o dalla multiforme comicità chapliniana ad una forma che pur attingendo a questo glorioso e fondamentale passato, trova nuove strade espressive utilizzando forme e stili usuali in chiave moderna, immergendo, ad esempio il suo lunare personaggio di Monsieur Hulot in una piccola babele di rumori, casualità, coincidenze, in altre parole in una caotica e progressiva composizione di una realtà in perenne superfetazione, propria di una modernità che diventa sempre più labirintica e per certi versi inaccessibile. È proprio per queste numerose ragioni che forse Tatì dovrebbe essere studiato non soltanto al cinema, ma come un vademecum che, sicuramente meglio di molti altri, ha saputo raccontare il definirsi progressivo di una modernità spaesante che traduce il disperdersi dell’uomo dentro un graduale anonimato sempre più insistito. Prova ne sia il suo film capolavoro Playtime del 1967 in cui la dispersione del personaggio, della personalità, diventa uno dei temi chiave di un film-summa che contiene il definitivo sguardo rivolto ad una collettività quale entità sociale Mon oncle, Tati, 1958sempre più erosa dai meccanismi di annullamento di ogni differenza. Il cinema di Tati si evolve in questa indagine e se Giorno di festa (1949) ritrae un mondo arcaico della campagna francese, di film in film questo piccolo universo si trasforma diventando sempre più sganciato da ogni materialità intesa come realtà riconoscibile. Mon Oncle (1958) è un film in cui le concezioni sembrano opporsi e il percorso del film istituisce un andamento parallelo tra i due mondi, distinti da precise scelte cromatiche sempre decisive per Tati, nel quale appare vincente la incipiente e inarrestabile modernità. Mon Oncle è un film che si atteggia come un esplicito intermedio e il rapporto con la realtà è ambivalente, divertito nelle sequenze dentro la Parigi da cartolina un po’ bohemien e un po’ popolare, severo come le linee e i personaggi che ne fanno parte, quando lo sguardo cade sugli scenari della più complessa articolata novità che avanza. Con Playtime il percorso si completa definitivamente. La modernità sancisce e costituisce l’annullamento di ogni precedente istanza e i suoi personaggi, tutti straordinariamente reali e al contempo tutti prodigiosamente fuori tempo e fuori luogo, sembrano navigare in una realtà che non è adeguata ai sentimenti umani, tutta lineare, compartimentalizzata, razionale e impersonale. PlaytimeL’ultimo suo lungometraggio Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971) non aggiunge molto alla poetica dell’autore e traduce in uno strano road movie l’inquietudine pacata verso l’ineluttabile irreversibilità dei contrattempi che impediscono il realizzarsi dei desideri dello sfortunato Hulot.
Tati non è un autore anti modernità, il suo non è un cinema nostalgico, malinconico, quanto piuttosto figlio di una digerita razionalità che ha molto bene in mente cosa dire, quando dirlo e come dirlo. In questo senso il suo è un cinema pochissimo, anzi per nulla, dispersivo. Anche qui, con una geometrica progressività, il suo lavoro artistico si fonda su una ricerca dell’immagine e una cura fino all’eccesso dell’inquadratura, che via via che passano gli anni (e i film) diviene sempre più ricca di eventi all’interno dei suoi margini, sempre più caotica, ma sempre efficacemente ordinata. Guardando il suo cinema e questo accade soprattutto con l’ultimo film, Playtime, si ha l’impressione di stare dentro un complicato sistema matematico di cui ci sfugge il disegno complessivo e per questo lo crediamo caotico, ma man mano che il sistema si sviluppa comprendiamo che i pezzi si mettono a posto per restituire un disegno finale di ardita concezione.
Ecco quindi che il suo cinema diviene un percorso preciso, per quanto irregolare, inPlaytime, Tati, 1967 cui la progressiva scomparsa del protagonista, la crescente rarefazione della trama, fino all’assoluto grado zero rappresentato da Playtime, l’incalzante assenza di dialoghi sostituiti dai rumori di fondo e dai gramelot sempre più frequenti, rappresentano forme perfezionative di una ricerca che tende ad una maniacale compiutezza di senso e nulla sembra dovere essere fuori posto. La freddezza delle forme di Playtime, film girato in 70 mm., costosissimo per il quale investì suoi averi personali dovendo ricostruire una città secondo la sua idea di modernità, contrasta con Giorno di Festa o con Le vacanze di Monsieur Hulot (1953) dove ancora è rintracciabile in modo evidente uno sfondo scenografico naturale e nel quale anche l’umorismo di Tati gioca, seppure con toni e registri anomali, dentro le regole dell’equivoco e della solitudine del personaggio.
Monsieur Hulot nel caos del traffico, 1971Dicevamo che Tati non è un autore contro la modernità, ma di certo contro la perdita di identità di cui una piega della modernità è causa. In questa prospettiva di certo Playtime e i film precedenti diventano anche una critica, senza i toni accesi di un cinema politico, all’avanzare del moderno, alla cosiddetta civiltà dei consumi. Ma il suo atteggiamento più che frutto di una particolare concezione sociale che riguardi il lavoro o il capitalismo e i rapporti – giusti o sbagliati – che si creano tra questi due estremi, si sofferma, pur sempre all’interno di questa dinamica, su quella possibile perdita d’umanità, su quella confusione dell’uno, nessuno, centomila che ha occupato i sottotesti della letteratura europea (soprattutto) negli anni immediatamente precedenti all’opera di Tati. In questo futuro, nel quale il distacco dagli uomini è ragione di un iperbolico attaccamento agli oggetti (l’automobile e la maniacale attenzione al parcheggio in Mon Oncle, l’automazione come inarrestabile volontà delle cose contro il volere dell’uomo nei tubi che assumono forme strane e incontrollabili nello stesso film, tutta la lunga sequenza nel bar/ristorante in Playtime in cui gli oggetti sembrano vivere una vita propria, le sedie, i soffitti, le illuminazioni che neppure l’architetto saPlaytime_1 dominare, la “vita” autonoma delle sedie nella sala d’attesa e poi nel negozio e ancora la lampada che si ripara da sola ecc..) sembra rimandare a quel graduale distacco da ogni sentimento umano, sia esso d’amore o d’amicizia e Monsieur Hulot diventa l’ultimo testimone di quel mondo riflesso nel vetro come una cartolina d’epoca, quando incontra un amico o un vecchio commilitone. La città ospita ormai cittadini quasi senza più fisionomia, tutti caoticamente confusi dentro una giostra-baraonda che è il nostro parcellizzato presente che sopravvive con i pezzi inattuali del passato. In questa visione molto forte, di una realtà frammentata ritroviamo quella naturale postmodernità che sembra appartenere di diritto al grande e geniale regista francese e in questo suo aureo isolamento da ogni altra ansia che sia quella di definire, quasi filosoficamente, una realtà che pare indefinibile, la sua inattualità e il suo contemporaneo distacco da ogni realtà vera, tangibile e definibile.

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