Jukai – La Foresta dei Suicidi, di Jason Zada

L’esordiente Jason Zada propone tanti spunti interessanti senza tuttavia trasformare il suo horror in qualcosa di indimenticabile. Qualche salto sulla sedia e poco più. Convincente Natalie Dormer

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

La foresta di Aokigahara è un’intricata e labirintica area boscosa che si estende per 35 km quadrati alle pendici nord-occidentali del sacro Monte Fuji, in Giappone. Caratterizzata da rocce laviche e caverne di ghiaccio, quest’area verde è così fitta che i raggi del sole vi penetrano a malapena e il vento non riesce a filtrare attraverso le chiome frondose degli alberi, facendone un luogo estremamente silenzioso. La foresta è conosciuta anche con il nome di jukai, letteralmente “mare di alberi”, poiché se ci si sporge dal punto più elevato e si guarda in basso si ha la sensazione di sovrastare un oceano verde. Ma a renderla famosa in tutto il mondo è una macabra caratteristica: dopo il Golden Gate Bridge di San Francisco (al quale, nel 2006, il regista Eric Steel ha dedicato l’agghiacciante documentario The Bridge – Il Ponte dei Suicidi), la foresta nipponica è infatti il luogo che detiene il primato di suicidi sull’intero pianeta. Il luogo deve la sua sinistra popolarità al romanzo del 1960 Torre delle Onde (Nami No Tō) di Seichō Matsumoto che narra le vicende di due amanti che finiscono entrambi suicidi nella foresta, ma già a partire dal XIX secolo abbiamo documenti che attestano come nell’area fosse praticata la triste tradizione degli ubasute, i membri più deboli di una famiglia – malati, storpi, ciechi, anziani o disabili – che qui venivano abbandonati dai propri cari e lasciati morire per ragioni di economia domestica durante i periodi di carestia e di guerra. Da queste pratiche poco ortodosse si è successivamente diffusa la leggenda che la foresta fosse popolata dai terribili yūrei, gli “spiriti arrabbiati” delle persone abbandonate ad un tragico destino. Nel corso degli anni, riallacciandosi a questo sinistro rituale, la foresta è diventata il luogo privilegiato di persone disperate desiderose di togliersi la vita: mediamente ogni anno vengono conteggiati tra i 30 e i 50 suicidi, al punto che le autorità locali hanno istituito delle ronde per ispezionare il bosco ed evitare nuovi tentativi di suicidio o per recuperare i corpi, mentre ovunque vengono piantati cartelli al fine di dissuadere gli aspiranti suicidi e di invitarli a rivolgersi a degli specialisti. Un vero bollettino di guerra: nel 2002 sono stati rinvenuti nella foresta 78 corpi, superando il precedente record di 74 nel 1998. Nel 2003 il numero è salito a 105 e da allora il governo locale ha smesso di rendere note le statistiche nel tentativo di non danneggiare l’immagine di Aokigahara. Nel 2004 il numero delle persone trovate morte è salito a 108, mentre nel 2010 sono state 247 le persone che hanno tentato il suicidio nella foresta, 54 delle quali hanno compiuto l’atto. Le statistiche indicano l’apice dei suicidi nel mese di marzo, la fine dell’anno fiscale in Giappone, riconducendo la maggior parte dei gesti estremi a ragioni economiche. A partire dal 2011 i mezzi più usati per togliersi la vita nella foresta sono l’impiccagione e l’overdose da farmaci. Basta farsi un giro in rete e, in particolare, su YouTube per imbattersi in spaventosi filmati che ritraggono i cadaveri dei suicidi rinvenuti nell’area da quei pochi coraggiosi che, vuoi a scopo ludico altre oppure a fini documentaristici, si addentrato nella foresta.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

jukai_foto1La giovane Sara Price (Natalie Dormer) riceve una telefonata dalla polizia giapponese che le dice che sua sorella gemella Jess (sempre la Dormer) è morta dopo che è stata vista addentrarsi nella foresta di Aokigahara. Affidandosi alle sue percezioni e al sesto senso gemellare che le dice che Jess è ancora viva, Sara decide di recarsi sul posto di persona per cercarla. Una sera, in un punto di ristoro davanti alla foresta, Sara incontra un giornalista australiano di nome Aiden (Taylor Kinney), che decide di scrivere una storia su di lei e sulla sua indagine privata. La mattina successiva, i due si avventurano nella foresta assieme a un ranger del parco, Michi (Yukiyoshi Ozawa), nel tentativo di scoprire la sorte di Jess.

La foresta maledetta e infestata costituisce indubbiamente un potenziale narrativo di impatto per ambientarvi storie gotiche oppure legate al folklore orientale e, infatti, il cinema vi ha già attinto con due pellicole piuttosto recenti: l’horror per la televisione Grave Halloween di Steven R. Monroe (2013) e La Foresta dei Sogni di Gus Van Sant (2015), presentato al Festival di Cannes. Lo screenwriter e digital marketeer californiano Jason Zada, qui al suo esordio in un lungometraggio dopo tre corti (Size, 2008; Scenes from an Unmade Movie: Job, 2008; Take This Lollipop, 2011), sembra attingere, più che a questi precedenti filmici, proprio alle tecniche mediali tipiche della condivisione on-line, soprattutto nelle scene in notturna e nelle corse a perdifiato tra gli alberi popolati da inquietanti creature. Rielaborando tematiche e visioni di molto j-horror – da Ju-on – Rancore (2002) al suo remake statunitense The Grudge (2004), entrambi di Takashi Shimizu – e strizzando l’occhio all’estetica di The Blair Witch Project (1999), Zada tenta di operare una fascinosa ed allucinata miscela tra thriller psicologico ed horror metafisico, finendo tuttavia per non approfondire nessuna delle due direzioni con l’inevitabile conseguenza che la pellicola appaia ricca di spunti e di buone intenzioni, ma confusa, prevedibile e con diversi passaggi a vuoto. Girato in Serbia a causa del divieto del governo giapponese di effettuare riprese ad Aokigahara, Jukai – La Foresta dei Suicidi ripropone in salsa nipponica un τόπος del genere horror come il calarsi in una dimensione di tenebre, paura e angosce per affrontare in primo luogo i propri demoni interiori e i propri sensi di colpa (viene in mente The Descent di Neil Marshall del 2005) e fonda il suo fulcro drammatico su una serie di opposizioni elementari – interno ed esterno, luce e buio, azione e reazione – e di contrasti, e contrari, psicologici che si innervano attorno alla personalità delle due gemelle – vedere e non vedere, impulsività e prudenza, ricerca e oblio, attrazione per il pericolo e fuga da esso. La scelta di relegare gli antefatti in una esigua serie di flashback disseminati nel corso della pellicola e di affrontare immediatamente la storia rivela un preciso indirizzo di metodo che, tuttavia, non aiuta a delineare con efficacia il profilo psicologico delle due protagoniste e a sfruttare appieno la dimensione dell’assenza che si fa ricerca, flusso di coscienza ed azione tangibile (Jess) e della presenza che diventa ricordo, rimpianto e processo passivo (Sara).

jukaiLa suggestione del legame psichico tra due gemelli – qui affidata all’interessante trovata delle “vibrazioni sonore” attraverso le quali ciascuna delle due sorelle avverte l’esistenza dell’altra anche a distanza e senza averne più notizie – non è certo originale e ha a più riprese attratto i registi che si sono cimentati con il genere horror (da Basket Case di Frank Henenlotter del 1982 a Inseparabili di David Cronenberg del 1988; da Con gli Occhi dell’Assassino di Guillem Morales del 2010 a Goodnight Mommy di Severin Fiala e Veronika Franz del 2014), mentre uno dei momenti più riusciti della pellicola è l’ambiguità angosciosa che viene ad instaurarsi nel rapporto tra Sara e Aiden, una relazione a due, in uno sterminato luogo dell’abbandono e della solitudine, giocata sulla paranoia e il sospetto. In questo ossessivo e disorientante scambio continuo di possibili alleati e di potenziali carnefici al quale prendono parte vivi e morti, spiriti senza carne ed esistenze senza spirito, risiede indubbiamente il merito maggiore del film, in un ansiogeno vortice della diffidenza affidato al sussurro della misteriosa Hoshiko e che sembra, sia pur vagamente, echeggiare una delle tematiche più care a John Carpenter. Ma il “fuoco”, per altro poco nitido, dato al rapporto tra le due gemelle e alla relazione tra Sara e Aiden fa paradossalmente e progressivamente uscire di scena il personaggio principale, la foresta, con le sue memorie sepolte e le sue brume di morte, sicché Aokigahara diventa teatro da animare e non soggetto animato. La sceneggiatura affidata a Nick Antosca, Sarah Cornwell e Ben Ketai perde di vista il potenziale narrativo offerto dai fatti di cronaca nera e dal folklore giapponese, liquida frettolosamente i numerosi “perché” che la storia inevitabilmente pone allo spettatore e depaupera di possibili chiavi di lettura i dialoghi tra Sara e Aiden, finendo per disarmonizzare il prodotto ed ingenerare una confusione, a tratti si direbbe grottesca, che ha un peso specifico notevole sullo sviluppo della pellicola. Il tappeto sonoro creato da  Bear McCreary e la fotografia di Mattias Troelstrup – che vira dalle luci artificiali, in cui predominano il blu e il rosso, di una tentacolare Tokyo notturna alle tonalità calde e aurorali del Monte Fuji fino ai toni freddi e cianotici della fitta foresta – accompagnano senza infamia e senza lode l’accidentato percorso di Sara-Jess e della sua-loro coscienza lungo il disomogeneo plot della pellicola. Natalie Dormer – la pluripremiata Margaery Tyrell de Il Trono di Spade e l’intrepida Cressida dei due episodi di Hunger Games – Il Canto della Rivolta – non sfigura in questo suo approccio al genere horror, dipingendosi sul volto una costante e monotematica espressione di gelo e di malinconia che bene si attaglia alla protagonista, la triste Sara Price. Triste, sì, perché la “tristezza” interiore è un tema centrale del film e, soprattutto, della storia della foresta di Aokigahara e della “mitologia” degli yūrei che la popolano. Chi è triste è preda degli “spiriti arrabbiati” ed è da essi corroborato nella decisione di farla finita. Un concetto, quest’ultimo, a suo modo di notevole portato ed interesse psicologico, ma anche in questo caso Zada mostra di preferire qualche sicuro e collaudato jump scare in più all’approfondimento delle dinamiche interiori.

Titolo Originale: The Forest

Regia: Jason Zada

Origine: USA, 2016

Interpreti: Natalie Dormer, Taylor Kinney, Eoin Macken, Yukiyoshi Ozawa, Noriko Sakura, Rina Takasaki, Yûho Yamashita, James Owen, Stephanie Vogt

Distribuzione: Koch Media

Durata: 93′

--------------------------------------------------------------
CORSO COLOR CORRECTION con DA VINCI, DAL 5 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative