Kira Muratova: imbalsamare il tempo

Il nostro ricordo della cineasta ucraina, scomparsa il 6 luglio scorso. Ne ripercorriamo le tappe fondamentali della carriera, da Breviincontri a Eterno ritorno

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Per me è con il lavoro fisico e il continuo esercizio che si riesce a raggiungere la facilità e la leggerezza. Con la ripetizione si arriva al giusto obiettivo e all’uniformità. La molteplicità nell’uniformità e l’uniformità nella molteplicità: è questo il mio segreto…” Kira Muratova

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Il mio primo incontro cinefilo con Kira Muratova è stato una notte di tanti anni fa, ormai persa nel tempo. Complice il benemerito Enrico Ghezzi e il suo Fuoriorario che trasmetteva Brevi incontri (1967) in un bianco e nero preistorico. Prima del 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, le opere di Kira Muratova erano sconosciute ai più, vittime della censura del regime. Poi era arrivato Gorbaciov e nei primi anni 90 la sua “glasnost” aveva tolto dal dimenticatoio e dall’emarginazione una lunga serie di registi e letterati sovietici resuscitandoli al mondo delle arti. Anche se non era l’opera prima, Brevi incontri segnava l’indipendenza di Kira Muratova dal marito regista Alexandr Muratov e tracciava l’inizio di un lungo discorso politico e rivoluzionario che sarebbe durato per almeno altri trent’anni profetizzando il declino e la caduta dell’impero sovietico. La storia è quella classica di un triangolo amoroso: lei Valentina Ivanovna (interpretata dalla stessa regista) funzionaria del Governo che si occupa di approvvigionamento idrico e controlla i diversi edifici per confermarne l’abitabilità; lui Maksim (Vladimir Vysotsky) geologo e cantastorie, vagabondo e rubacuori, sempre assente dal focolare domestico; l’altra la giovanissima Nadja (Nina Ruslanova) che abbocca ingenuamente alla seduzione di Maksim, il Don Giovanni russo.

E’ gia tutto qui il cinema di Kira Muratova nella destrutturazione narrativa dei flashback che riflette la dissoluzione identitaria dei tre protagonisti. E’ vero, c’è molta nouvelle vague francese, una chiara citazione di Resnais e il suo Hiroshima mon amour ma anche il Pietrangeli de Io la conoscevo bene. Il comportamento ambivalente di Maksim determina una distanza incolmabile sia con il pragmatismo sovietico che con gli ideali rivoluzionari della giovinezza. Ragione privata e ragion di stato collidono mostrando i piedi di argilla di una nazione con troppe contraddizioni al suo interno.

Questo cinema che parte dal reale per poi sconfinare nel surreale caratterizzerà tutta la produzione successiva di Kira Muratova sin da Lunghi addii (1971) che prende spunto dal travaglio di una potente storia d’amore richiamando le Ombre e i Volti di John Cassavetes, come se ogni immagine nascondesse una fragilità cosi profonda da renderla evanescente. Non c’è alcuna retorica o un abbellimento della realtà che appare al contrario incupita (“chernukha” è il termine esatto), degradata, spesso senza speranza. E’ un cinema di personaggi, di sguardi, di primi piani, di silenzi dilatati, di nudità sgraziate, di sentimenti melodrammatici (semi-operistici), di mutilazioni, di cani e di gatti, di urla munchiane di dolore, di umorismo mordace. Risulta evidente il pesante ostracismo subito dal regime sovietico che ha sempre cercato di boicottare la produzione e la distribuzione dei film, intravedendo proprio nel suo sguardo sarcastico e poco indulgente il potenziale sovversivo.

La vetta di questo primo periodo è La scoperta della vita (1979) film invisibile, molto amato dalla regista: all’interno di uno squallido cantiere si celebrano matrimoni collettivi. Il megafono dell’autorità annuncia la necessità di ritornare al lavoro dopo la breve parentesi nuziale. La rottura dello specchio è l’irrompere della realtà in questo mondo di illusione. La cinica indifferenza del Sistema verso il sentimento d’amore si trasformerà in Sindrome astenica del 1989, Orso d’ argento al Festival di Berlino e opera che fa da spartiacque nella produzione di tutto il movimento russo. Una donna è in lutto per la morte del proprio marito, sullo sfondo la decadenza di ambienti alienati, poveri, disperati. Vaga per le strade urlando il proprio dolore, cerca compagnia e comprensione, trova solo diffidenza e rifiuto. Piccolo colpo di scena: diventiamo spettatori di questo film (dal bianco e nero si passa al colore) e nella sala la maggioranza degli spettatori abbandona la visione con imbarazzo, senza nemmeno aspettare il dibattito. Un insegnante è sprofondato in poltrona e sta dormendo: cercherà un senso tra le vie della città e si scontrerà con la propria compagna, con la madre, cercherà di insegnare a dei ragazzi svogliati, farà diversi incontri eccentrici che lo scuotono solo mometaneamente dal torpore. Ma il sonno prevarrà e lo porterà via nel buio in metropolitana sulle note di Chiquita. Qui Kira Muratova è ai vertici della propria poetica: la Russia in piena glasnost ha al suo interno i germi dell’autodistruzione; la desacralizzazione del corpo va in senso anti tarkovskijano e viene tolta ogni aura mistica o magica agli elementi naturali. La apocalisse sovietica di Sindrome astenica dà origine alla parte post modernista della produzione della Muratova con una particolare predisposizione per il meta-teatro, gli esercizi di stile alla Queneau, la elaborazione delle asimmetrie gemellari, la proliferazioni di freaks e corpi mutilati.

Durante le più recenti interviste Kira Muratova ha sempre voluto mantenere le distanze sia dal cinema hollywoodiano che da quello europeo d’autore (Bergman, Antonioni) proclamando quella indipendenza e unicità che l’hanno resa figura determinante nel traghettare la Russia nella modernità. Così in Tre piccoli omicidi (1997) il pessimismo della ragione sembra trovare sempre il modo di manifestarsi attraverso comportamenti e mezzi, sino al veleno per topi che cita il Satantango di Béla Tarr; in Motivi cechoviani (2002) vengono splendidamente rappresentati Tatiana Repina e Gente Difficile con una analisi introspettiva sui rapporti complicati con le figure genitoriali; in L’accordatore (2004) la commedia strizza l’occhio alla leggerezza di Truffaut e agli avanguardismi di Vera Chytilova; in Melodie per organetto (2009) il lato onirico prende il sopravvento fino al momento in cui si cade in uno stato ipnotico che rimanda simbolicamente a quello della Russia contemporanea.

Infine Eterno ritorno (2012) che parte da Nietzsche per svolgere una meditazione sull’arte e sulla vita, sulla uniformità e sulla molteplicità. Una stessa scena ripetuta all’infinito in un loop che prevede piccole differenze dovute al cambio degli attori. In questa differenza sta l’interstizio del reale in cui trovare la chiave del mistero, il codice segreto che coglie il senso. Proprio quest’ultima opera e la rivelazione finale meta-testuale confermano che tutto lo sforzo di Kira Muratova sin dagli inizi di Brevi incontri, non è andato verso l’atto tarkovskijano di scolpire il tempo ma verso la possibilità di rallentarlo fino a fermarlo. Le immagini passano, il cinema è per sempre.

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