#Venezia73 – Ku Qian (Bitter Money), di Wang Bing

Bitter Money è forse meno potente di Three Sisters o Feng Ai, ma Wang ci ha fatto l’ennesimo preziosissimo regalo: abbiamo condiviso esperienze insieme a quelle persone, azzerando il cinema. Orizzonti

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Una donna finisce il suo lavoro in fabbrica, saluta i colleghi prima di andare a casa, decide di fare una passeggiata e rivolta verso l’inquadratura dice: “vieni, andiamo?”. Insomma si porta dietro il film, che inizia a seguirla, sino a quando riceve una telefonata cambiando improvvisamente i suoi piani, deve tornare indietro, parlare di questioni urgenti con i colleghi… e noi, come il film, deviamo nuovamente il percorso. Ecco: in questa piccolissima sequenza, persa nei soliti liminali pedinamenti di Wang Bing, c’è tutto il cinema di questo straordinario regista cinese. Ossia un cinema ontologicamente aperto al caso, all’imponderabile, al rapporto strettissimo con i propri soggetti senza mai imporsi come latore di traiettorie, risultando semmai un discreto compagno di viaggio che osserva e non giudica. Chi seguiamo questa volta?

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Un gruppo di operai parte da un paesino dell’Est della Cina per trasferirsi in città, perché ingaggiati da varie piccole fabbriche tessili. Seguiremo molti percorsi di vita, seguiremo il loro duro lavoro, ma prima seguiremo il loro viaggio in treno (bellissimo) verso la città, dove con estrema delicatezza Wang insinua la sua videocamera digitale tra partite a carte e chiacchierate, mangiate e bevute, sguardi persi nel futuro e vita colta sul fatto. Un nuovo lavoro attende queste persone, un mutamento profondo di abitudini e relazioni, in condizioni probabilmente più dure di quanto si aspettassero. Perché la città si impone inesorabilmente. Rumori ambientali sovrastano le voci, le abitudini alimentari mutano drasticamente, i

2rapporti umani iniziano a subire incrinature: una coppia litiga (Wang è lì a seguire ogni loro movimento, ogni accenno di violenza, creando non pochi dubbi etici nello spettatore), non c’è più privacy nello stabile così stracolmo di persone, la terrazza diventa un rifugio per conversazioni private. Ecco: la città si sente ma non si vede, perché il punto di vista rimane ancorato a questo condominio che i lavoratori non hanno tempo di abbandonare. Il lavoro li risucchia, il film si adegua.

Cosa resta del fuori? Gli smarthphone e le chat. Questo è un film dominanto dai nuovi device e da mille schermi, che impongono la realtà (alternativa) dei social come unica realtà (tangibile) per superare gli spazi ristretti del lavoro. E si crea una siderale distanza tra i tempi mancanti dello spazio-del-web e i tempi dilatati del film di Bing: una straordinaria riflessione sottotraccia su come il cinema possa ancora conservare un tempo dell’emozione non filtrato. Aprendo ancora oggi una finestra sul mondo. Perché il cinema, in Bing, guarda sempre ad altezza d’uomo, alla pari, sbatte sui personaggi, viene redarguito dagli stessi (“filmerai domani“), insomma è un amico come tanti. Un amico che vive: un uomo perde il lavoro, un altro si lamenta delle paghe, le donne acquistano una loro soggettività forte, l’emigrazione interna cambia i connotati dei luoghi, ecc, ecc. Insomma enormi questioni politiche, sociali, culturali ed economiche, trovano punti di fusione proprio in questi piccoli destini, che disegnano i lenti mutamenti di una nazione (la Cina) così centrale per i destini del mondo. Bitter Money è forse meno potente di Three Sisters o Feng Ai, certamente meno ambizioso di Tiě xī qū, ma alla fine dell’ennesimo viaggio in Cina ci accorgiamo che Wang ci ha fatto un preziosissimo regalo: abbiamo condiviso esperienze insieme a quelle persone, dall’altra parte del mondo, azzerando il cinema e quindi elevandolo al più nobile dei compiti. Creare rapporti umani.

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