La caduta dell’impero americano, di Denys Arcand

Il film di Arcand è costituito da dialoghi intelligenti e da una sottotrama d’azione che regge, ma nonostante la riuscita è indubbio che durante la visione respiriamo un’aria che sa un po’ di chiuso

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Trentadue anni dopo Il declino dell’impero americano e quindici dall’Oscar vinto per Le invasioni barbariche, il regista canadese Denys Arcand torna sui grandi schermi con un film che chiude la sua trilogia sulla società odierna: La caduta dell’impero americano. La storia è quella di Pierre-Paul (Alexandre Landry), trentaseienne dottorando in filosofia costretto a lavorare come fattorino per guadagnarsi il pane quotidiano. Durante una consegna si ritrova coinvolto in una rapina che finisce nel sangue senza nessun testimone. Un borsone pieno di soldi giace a pochi passi da lui. Pierre-Paul decide dopo pochi secondi di prendere la borsa, scatenando una serie di eventi che porteranno ad un cambiamento radicale nella vita di tutti.

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Arcand ritorna alla sua amata satira, ma questa volta condisce la consueta serratezza dei suoi dialoghi, a cui era affidato il dinamismo nei due film precedenti, con una sottotrama d’azione che sfiora il caper movie (genere cinematografico in cui un grande colpo o una grande truffa vengono messi in atto da un gruppo di individui). Ma l’azione legata alla rapina e al borsone è solo un pretesto; il punto focale è sempre lo stesso, la condizione della società occidentale, qui definitivamente caduta e non più solo in declino. Una società che accetta città brulicanti di clochard senza cibo né riparo, dove un’impiegata non riesce a portare il proprio figlio in vacanza e chi ha studiato per esercitare il pensiero non ha il posto che gli spetta.
Tutti gli uomini potenti sono degli stupidi è per questo che sono riusciti a salire al potere” dice Pierre-Paul nella prima scena ambientata in un diner, palese richiamo all’inizio di Pulp Fiction dove Pumpkin e Honey Bunny conversano prima dell’azione, quasi a voler anticipare il destino del protagonista che da inetto incapace di agire si trasforma in una sorta di Robin Hood moderno aiutato dagli emarginati della società, la bella escort Aspasia (Maripier Morin) e l’ex galeotto Sylvain (Remy Girard), decisi a fare giustizia in un mondo in cui i soldi, destinati a pochi scelti, sono custoditi lontani in virtuali paradisi fiscali.

La caduta dell’impero americano è un film costituito da dialoghi svelti e intelligenti e da una storia (compresa la traiettoria della rapina) ben scritta e capace di intrattenerci piacevolmente. Certo, ne è passata molta di acqua sotto i ponti dai film precedenti del regista, e sebbene la poetica di Arcand sia notevolmente piena di pregi (il quebechiano non è di certo l’ultimo arrivato) si rivela forse, in un momento di stravolgimenti narrativi,  anche costituita da molti limiti, uno dei quali potrebbe essere un vero e proprio ritmo di sceneggiatura ormai non più consono a raccontare (in) questi tempi così rapidi e impazziti. C’è qualcosa di sorpassato nel film di Arcand, e nonostante il film sia riuscito sotto molteplici punti di vista, è indubbio che durante la visione si respira un’aria che sa un po’ di chiuso.

 

Titolo originale: La Chute de l’Empire Américain
Regia: Denys Arcand
Interpreti: Alexandre Landry, Maripier Morin, Remy Girard, Louis Morisette, Maxim Roy
Distribuzione: Parthénos
Durata: 127′
Origine: Canada, 2018

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