La riapertura mediatica

La riapertura delle sale del 15 giugno porta speranze e questioni ancora irrisolte: non dimentichiamoci però la libertà d’azione sperimentata in questi mesi di sospensione del servizio centralizzato

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Nessun altro posto, reale o virtuale che sia, dovrebbe essere chiamato “Cinema”. Senza una sala buia, senza l’energia di una visione collettiva, senza l’immersività e senza la qualità di proiezione che solo una sala cinematografica garantisce, l’esperienza si riduce a vedere un film, magari in compagnia, magari su uno schermo grande, ma senza tutti gli elementi insieme: diventa un surrogato della sala cinematografica.
dalla Lettera aperta per il sostegno all’esercizio cinematografico, sottoscritta anche da Sentieri Selvaggi

In molti hanno storto il naso di fronte alla modalità con cui Ryan Murphy decide di concludere la sua ultima mini-serie Netflix, Hollywood. La notte degli Oscar nella realtà alternativa dell’universo-Murphy (in cui Darren Criss è sempre e comunque mezzo-filippino) sembra sovrascrivere la Storia per “liberare” gli spettri delle vittime dell’oscurantismo degli Studios, costruendo per loro una piattaforma di post-verità (come quella che ospita il prodotto?) dentro la quale poter accedere finalmente alla propria identità certificata, come accade per ogni esorcismo di fantasma, e costringendo gli spettatori all’abituale forsennato fact checking che è alla base della fruizione delle opere dello showrunner (e che ha con molta probabilità fortemente influenzato anche l’attuale approccio nostrano all’immaginario politico-catodico degli ultimi decenni, dalle stagioni di 1992-3-4 ad Hammamet…). Ma siamo realmente sicuri che nei sorrisi, negli abbracci e nelle mani intrecciate del finale di Hollywood ci sia davvero quell’happy ending che Murphy continua a vagheggiare in difesa della serie? L’istituzionalizzazione degli Awards e dei riconoscimenti ufficiali è davvero immagine di un afflato progressista oppure cela piuttosto una normalizzazione lustrata che richiede avidamente in cambio il sacrificio di qualunque ambiguità? Con le statuette date a Sly e Adam Sandler ci saremmo risparmiati Rambo: Last Blood e La Missy sbagliata? (faceva un discorso simile tempo fa Simone Emiliani riguardo al recente Oscar onorario a David Lynch). Per assicurarsi il trionfo garantito, i protagonisti di Hollywood scendono baldanzosamente a qualunque compromesso riguardo al loro progetto di film su Peg Entwistle: ora la ragazza si chiama Meg, e il suo volo suicida dalla H dell’insegna che sovrasta la valle di L.A. viene evitato all’ultimo. Basta un cambio di iniziale per risolvere ogni conflitto e venire osannati dalla platea dell’ambiente del cinema: anche il pappone Scotty Bowers di fatto “compra” con il suo obolo di 25000 dollari la possibilità di avere una seconda chance d’attore sullo schermo. Forse, la vera libertà i nostri eroi l’hanno sperimentata solo in quel periodo iniziale di spaesamento al cospetto dell’industria dell’entertainment, quando ancora l’un l’altro si facevano forza per cambiare le cose, ognuno nel proprio modo, prima di finire inglobati e definitivamente indottrinati dal “sogno globalizzato”.

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Insomma, la grande inquietudine dell’ultima creatura di Murphy è proprio su quanto ognuno di noi, per quanto idealista o integerrimo, non veda l’ora in realtà di aggrapparsi alle impalcature di un meccanismo che possa decidere per noi quelle piccole accortezze necessarie per rendere tutto vincente, giusto una P che diventa M: non vediamo l’ora di passare le mattinate fuori dalle inferriate delle ACE Productions in attesa che un dito si posi proprio su di noi, e ci venga permesso di entrare. Chi si occupa di cinema, come questa rivista, ha visto da un paio di settimane il grande ritorno di una comunicazione e di una “agenda setting” reincanalate sulle modalità abituali, dopo il mesetto di assestamento: a capitalizzare l’attenzione sono le uscite in vod e non più in sala, ma calendarizzate sostanzialmente “alla vecchia maniera”; il dibattito sui premi assegnati a distanza, su questo o quel remake o uscita annunciati, il trailer del momento, la dichiarazione scomoda.  L’annuncio della riapertura delle sale prevista per il 15 giugno porta con sé una serie di quesiti pesanti ma ha fatto tirare a moltissimi un sospiro di sollievo. Ammettiamolo pure, non vedevamo l’ora di poter di nuovo aprire la mail redazionale al mattino e trovarci i rassicuranti comunicati degli uffici stampa: ora la macchina quotidiana dell’informazione dello spettacolo può ripartire come nulla fosse, le conferenze su Zoom e le nuove piattaforme delle distribuzioni, a reiterare un’idea ritualistica e idiosincratica di cinema e vita, come ha notato Raffaele Meale. Cannes che non si tiene (come Locarno, in misura minore) è ad esempio per chi fa questo mestiere tra le altre cose anche la “disgrazia” di decine e decine di articoli in meno con cui polarizzare le nostre pagine per due settimane. Non sappiamo ancora precisamente cosa succederà a metà giugno (quali sale riapriranno davvero? con quali modalità? quali film? quali festival? e le arene, e lo streaming first dei portali appena varati?), ma è chiaro che una ripartenza dell’industria è auspicabile per tutti i lavoratori coinvolti in tutte le diramazioni dell’impiego nel cinema. Siamo sicuri però che sia necessaria anche una ripresa di questa rete centralizzata e livellante, canonizzatrice, basata su dinamiche di promozione e marketing sempre uguali?


Ecco il punto: la centralità del Cinema che gli autori della lettera citata in esergo vogliono strenuamente difendere, non deve riportarci al sistema piramidale di cui per un attimo abbiamo visto la messa in discussione “forzata”, perché la promessa di un riavvio di pratiche nelle quali sappiamo come muoverci sembra alleggerirci dall’impasse di immaginare forme altre di intervento. Per un attimo ha funzionato, ve lo ricordate? Abbiamo dovuto fare i conti con il raccontare un’offerta cinematografica improvvisamente non più decisa da dinamiche imposte dai piani strategici. C’è chi si è sentito perduto, chi per la prima volta ha veramente fatto i conti con la sfida dei peer network, chi si è fatto da parte, chi ha spinto sulla propria passione per l’archivio e la storia del cinema, chi ha tentato di espandere gli orizzonti della “cosa” (noi abbiamo cercato di darci da fare, come sempre). Non è accaduto solo ai siti e alle riviste ma anche ai cinema d’essai, ai festival, alle associazioni, ai musei, cineteche e organismi di settore. E possiamo dircelo, questa pluralità di sguardi, di attenzioni, di suggestioni, di proposte, di scoperte e di strumenti (dalle dirette social agli archivi “liberati” in rete alle riflessioni da pandemia o meno) ha fatto bene al respiro dei nostri ecosistemi digitali: ci siamo accorti (una buona volta!) che si poteva trasmettere il cinema ogni giorno anche senza i timoni precompilati dalle newsletter della stampa. Ora verranno a dirci che fino ad adesso ci siamo occupati di Peg Entwistle, un argomento minore e minoritario, poca cosa in confronto a Meg che è un trend topic sicuro: fidiamoci e tutto tornerà ad avere quell’attenzione capitalizzata che ci faceva essere così felici di un press junket inatteso o di un contenuto ad “alta prestazione” sulle bacheche. Accetteremo tutti le terms of service, per quanto abbia ragione quel billboard che Giulio Sangiorgio ha rilanciato per il titolo del suo ultimo editoriale. Ma se Hollywood non ha memoria, facciamo almeno in modo che questa scintilla resti in ognuno di quelli come noi, che si arrabattano ogni giorno per farsi veicolo di idee e pensieri sul cinema attraverso le proprie attività e parole. Custodiamo l’attitudine di queste settimane in cui, mentre speravamo tutti per la riapertura delle sale, siamo tornati ad intravedere uno o più discorsi, che non vanno lasciati morire. Ricordiamoci questi sforzi e queste ricerche quando i nostri feed torneranno ad essere identici per tutti i “colleghi”. La mia riflessione preferita “da lockdown” è quella di Bruno Latour sui gesti-barriera, e credo che se ognuno dei miei contatti iniziasse a ragionare sulle domande poste alla fine di quell’articolo, riferendole al “nostro” mondo del cinema, i risultati potrebbero essere interessanti.

È qui che dobbiamo agire. Se l’opportunità si apre a loro, si apre anche a noi. Se tutto viene fermato, tutto può essere rimesso in discussione, flesso, selezionato, ordinato, interrotto per davvero o, al contrario, accelerato. È ora il momento di fare l’inventario annuale. Alla richiesta data dal buon senso: “Riavviamo la produzione il più rapidamente possibile”, dobbiamo rispondere con un grido: “Assolutamente no!”. L’ultima cosa da fare sarebbe rifare esattamente ciò che abbiamo fatto prima. – Bruno Latour, Immaginare gesti-barriera contro il ritorno alla produzione pre-crisi

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