La fabbrica fantasma, di Mimmo Calopresti

La realtà è un depistaggio. In cui la finzione sembra essere lo scrigno della verità. E la sfida del doc è proprio di raccontare i traffici oscuri che si celano dietro questa verità contraffatta

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Si procede a tentoni, quasi si brancola nel buio. Non si capisce più niente”, dice Mimmo Calopresti, nel bel mezzo di un lungo preambolo narrativo, una specie di intimo racconto familiare. Salotto di casa, Calopresti al fianco della piccola figlia Clio, in TV passa il dramma dei profughi, si vede un bambino ormai orfano, con in mano un orsacchiotto. Quell’orsacchiotto catalizza l’attenzione, ma è un attimo. Capiamo che quel pupazzo di peluche può essere il punto, aiutati anche dal titolo e dal sottotitolo – “Verità sulla mia bambola” – ma siamo ancora lontani. Perché sembra solo un pretesto per fare mandare avanti il “plot”. Clio che si appassiona alla sorte del bimbo visto in TV, il buon Mimmo, che spinto dalle domande della figlia e dall’inquietudine del presente, mette in piedi una piccola raccolta fondi, col mercatino di giocattoli. La piccola quotidianità che si intreccia con la questioni più grandi, la narrazione minuta che si apre all’impegno e al sociale. Cinema minimo e dal cuore d’oro, seppur inquieto. Ma in realtà è tutto un depistaggio. La realtà è un depistaggio. In cui la finzione sembra essere lo scrigno della verità. E quando si scopre che gran parte dei giocattoli di Clio è contraffatta, per lo più made in China, proprio questo paradosso diventa il centro della questione e l’obiettivo. Del resto La fabbrica fantasma è un doc inserito nell’ambito di “A mano disarmata”, forum multimediale di informazione contro le mafie nate da un’idea di Paolo Butturini, e sostenuto dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana. E così, Calopresti parte alla ricerca di questa enorme “fabbrica fantasma” che detta i ritmi e le regole del mondo del falso e del contrabbando, tra giochi, sigarette, vestiti e via dicendo. Un mostro privo di contorni, un’entità all’apparenza immateriale, fantasma appunto, eppur radicato a livello profondo, nella ramificazione tentacolare dei centri di produzione e di smistamento, nelle strategie a lungo raggio delle organizzazioni criminali che agiscono secondo la stessa ottica globale della grande industria “legale”.

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la fabbrica fantasma2Tutto chiaro, senonché Calopresti procede per spiazzamenti e dislocazioni. Si muove lungo le grandi traiettorie del contrabbando, lungo le Chinatown d’Europa, da Napoli a Budapest, su fin al fiume Tisza, al confine tra l’Ungheria e l’Ucraina, accesso privilegiato dei traffici clandestini per l’Europa. Ma procede comunque per salti, tra il chiaro e lo scuro, tra la complessità dei contesti e le dinamiche del fenomeno. Così si affaccia tra i container del porto di Napoli, per poi incontrare i ragazzi dei Quartieri Spagnoli, che gli raccontano la città e il loro sogno di fuga, magari nel cinema. Parla con i finanzieri e poi con il titolare della nota pizzeria Sorbillo, che manda avanti la sua sfida della qualità. Non sembra esserci una vera e propria strategia nella sua inchiesta, quanto il modo di procedere rapsodico del “profano” che tenta in tutti i modi di trovare i segni visibili di una mappa oscura. E se pur segue le strade ufficiali, è anche disposto a raccogliere i pezzi in modo piratesco, tra immagini rubate, videocamere nascoste, acquisti azzardati. Quasi a voler affrontare i traffici clandestini con la velocità e la leggerezza di un cinema altrettanto clandestino. Un cinema squilibrato e vivo, che ci mette la faccia e si sporca le mani. Per poi rivendicare la forza dello scarto poetico. Di una bellezza non falsificabile.

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