"La felicità non costa niente", di Mimmo Calopresti

Appassionato, radicale, per niente disposto alla semplificazione, Calopresti fotografa le dissestate strade dei nostri amori e ci aiuta a ricordare qual è il costo dei sentimenti, la sincerità

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Sui titoli di coda, la gente si alza con una certa lentezza – la sala s’illumina. I movimenti sembrano incerti come di chi sia colto da una perplessità, da un senso di incomprensibile turbamento. Ma non è uno di quei film dove non capisci il finale, dove non cogli il senso della chiusura, dove quello che dovrebbe essere stato risolto è ancora saldamente annodato. E’ un altro senso. Come quello di chi si sente dire, magari per la prima volta, cose che gli aleggiano intorno o, addirittura, che gli gravano dentro. Il film, appena finito, è tutto lì. Ci ha portato in giro per Roma, per Torino, per strade, belle case, cantieri. Ed il volto di Peppe Servillo (il cantante-attoriale degli Avion Travel), col suo modo di fare da operaio napoletano, la sua voce da napoletano e la sua faccia sulla quale un napoletano legge già abbastanza, incuriosisce questo pubblico – inutile dire – napoletano.

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Chi si è goduto il film, chi si è stupito nel vedersi specchiato e spiato, chi ha seguito il racconto pensando che quella storia era, più o meno, la sua storia, si è anche detto “questo film i giovani non lo capiranno. E gli adulti non vorranno capirlo”. E, questo, perché si porta dentro cose che nessuno vorrebbe sentirsi dire. A partire dal fatto che, la felicità, costa tantissimo. E Calopresti è buono ed ottimista a concludere il film con quel finale lì. Per il resto, trasuda violento realismo e rappresenta con chiarezza una realtà che ci è attorno e che rende complicata la nostra vita.

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Ci sono film in cui vedi le scaramucce di una coppia di amanti e, alla fine, ti viene da pensare che la vera trama sta tutta nel rapporto tra padre e figlio. In questo, invece, si esibisce tranquillamente un rapporto che permette ad un’esistenza di trovare una via di fuga, dove la presenza del figlio diventa l’unica realtà affettiva e positiva inalienabile, eppure ti rendi conto che il film è proprio sulla coppia, sulla difficoltà della sua esistenza. Scegliere la strada della sincerità è un’evenienza fatale. Perché la coppia sembra avere necessità di basarsi proprio su questo elemento: non l’infedeltà, bensì l’insincerità. Perché la sincerità ha un costo altissimo e nessuno riuscirebbe a sopravvivere, nessuno accetterebbe di condividere tale prezzo. Con i figli, invece, è un lusso che ti puoi permettere. Era mio padre può essere un buon esempio: in quel rapporto tutto è permesso, persino la sincerità.

03_LaFelicit+áNonCostaNienteTroisi queste cose le sapeva bene e ci scherzava: in Pensavo fosse amore… invece era un calesse (il caso: anche in quel film, Francesca Neri) ce lo spiega con la sua abituale calma: ditemi una bugia, che vi costa? La verità è pesante, fastidiosa, inutile… In amore la bugia è un buon antidoto. Un antidoto necessario. Solo che se, a un certo punto della vostra vita, per una ragione qualsiasi, vi scoprite desiderosi di un mondo in cui domini questa bruttissima e pesantissima parola – sincerità – allora non avete scampo. Le cose, i rapporti, attorno a voi, si sgretolano, diventano realtà impura, ingestibile. Bellocchio aveva aperto il discorso – con L’ora di religione – ma Calopresti, in modo ancora più radicale, lo porta avanti, annulla la possibilità di trovare soluzioni all’interno del rapporto binario che lega un uomo a una donna. Cerca altrove, cerca fuori, trova spiragli nell’affetto che lega un padre ad un figlio. Sembra di assistere ad una sfilata di nuove ricorrenze, un lavoro di paziente collazione di quelle figure che ci sommergono: anche qui, la presenza “buona” di una psicologa. Strani personaggi: amati e odiati. Verdone, nel suo Ma che colpa abbiamo noi, in un rapido frammento, riesce ad affondare la spada nel fianco e lascia che un personaggio, un ex paziente, urli, durante il funerale della terapeuta, che a nulla serve questa pratica, che le ricevute fiscali nessuno le ha mai viste… Veniva il gusto di andare avanti, di approfondire il discorso. Ma questo è un territorio scivoloso, si procede per slittamenti, tutti preferiscono allontanarsene, appena possibile anche se è proprio impossibile farne a meno (Nanni Moretti ci impatta violentemente in La stanza del figlio per non dire di Faenza e del suo Prendimi l’anima, giusto per non allontanarci dall’Italia).


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Calopresti ci finisce dentro a forza ed il suo personaggio tenta un passaggio necessario solo a dar voce al suo senso di colpa, un senso di colpa che sarebbe venuto fuori comunque (col suo operaio del quale ha provocato la morte e che, ora, gli appare quasi fosse un angelo custode capace di tranquillizzare e di dare consigli).
Anche la visita a Torino è un buon parametro per leggere il presente, un altro elemento che rende questo testo un paradigma della contemporaneità affettiva: il mondo dei mammoni non esiste più – appartiene al passato, ad una rappresentazione al maschile del passato. Oggi si ricerca la coppia genitoriale, si adora ciò che è stato il nostro rifugio per anni e questo appartiene incondizionatamente agli uomini come alle donne (di più agli uomini) di oggi. La bruciante contraddizione sta proprio in questa opposizione: da un lato la famiglia (di provenienza) come realtà imperdibile, dall’altra la distruzione della propria famiglia, quale unica possibilità per la pratica assoluta e radicale della sincerità. In mezzo ci sta il dolore per questa frattura che ci portiamo – come generazione – dentro. Fuori ci sono, al momento, i figli. E fuori dovrebbero restare: se a loro vogliamo trasmettere un’idea profonda di sincerità, ci tocca questo lavoro e questa sofferenza. A loro apparterrà, probabilmente, il compito di ricomporre la frattura, di riuscire a narrare una storia che nulla ha più a che vedere con falsi rapporti di coppia e con ingarbugliate interpretazioni dei sentimenti, che accetta la possibilità di poter mirare a felicità più ampie, a rapporti più profondi e sinceri, meno vincolati alla distruttività d’un sentimento per niente pacifico, fortemente turbolento, irregolare e insensato com’è l’amore.

 

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